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LEIDA. 255

battaglia fra le cime degli alberi e i tetti delle case sommerse, al chiarore dei lampi delle cannonate. I bastimenti spagnuoli sono sopraffatti, invasi, affondati; gli Zelandesi saltano nei bassi fondi e spingono innanzi i loro battelli a forza di spalle; i soldati spagnuoli, presi dal terrore, abbandonano i forti, cadono a centinaia nel mare, sono uccisi a colpi di pugnale e d’uncino, precipitati dai tetti e dalle dighe, fulminati, dispersi. Rimane un’ultima fortezza in potere del Valdez; gli assediati ondeggiano ancora una volta fra la disperazione e la speranza; anche quella fortezza è abbandonata; la flotta olandese entra in città.

Qui l’aspettava uno spettacolo orrendo. Un popolo scarno, trasfigurato, sfinito dalla fame, s’affollava lungo i canali, strascinandosi per le terre, barcollando, tendendo le braccia. I marinai si misero a gettar pani dai battelli sulle strade, e allora cominciarono fra quei moribondi delle lotte disperate; molti morirono soffocati; altri spirarono divorando quel primo nutrimento; altri caddero nei canali. Quietata finalmente quella prima furia, saziati i più rifiniti, provveduto ai più stringenti bisogni della città, si confusero festosamente cittadini, zelandesi, marinai, guardie civiche, soldati, donne, ragazzi, e quella turba gloriosa e consunta corse alla cattedrale, dove cantò, con voce rotta dai singhiozzi, un inno di grazie al Signore.

Il principe d’Orange ricevette la notizia del salvamento a Delft, in una chiesa, mentre assisteva