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ALKMAAR. 373

serve di passeggio pubblico, dove si fa in occasione di grandi feste la così detta harddraverij, o corsa al gran trotto, col premio genuinamente olandese d’una caffettiera d’argento. Ma non ostante il bel bosco, la chiesa, la casa municipale e i suoi undicimila abitanti, Alkmaar non ha che l’aspetto d’un grande villaggio, e per le sue strade regna un silenzio così profondo, che la musica dei campanili, più selvaggia ancora che nelle altre città, vi si sente da tutte le parti rumorosa e distinta come nella quiete della notte.

Andando dalle strade solitarie verso il centro della città, cominciai a vedere un po’ più di gente, fra cui molte donne, che essendo giorno di festa, erano tutte in oro e in fronzoli, particolarmente le contadine. Per dir la verità, io non so che cosa avesse negli occhi Napoleone il giorno che arrivò ad Alkmaar. Ci sono certo dei bei visetti di monachelle che han l’aria di dire: — Non so nulla di nulla; — e soprattutto delle guancine del più gentile color di rosa che abbia mai diffuso il pudore sul volto d’una vergine; ma l’effetto di queste tenui grazie è spietatamente distrutto dalla scellerata acconciatura del capo e dall’ancor più scellerata foggia del vestire. Oltre i gruppi di riccioli, gli orecchini a paraocchi di cavallo, la lastrina che attraversa la fronte e la cuffia bianca che nasconde le orecchie e la collottola, portano sulla testa, o per dir meglio sul cocuzzolo, un gran cappello di paglia, di forma quasi cilindrica, con una larga tesa rivestita di seta