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382 ALKMAAR.

filò la porta e mi lasciò nelle péste. Allora afferrai la mia valigia e scesi le scale. Gli alkmaaresi della tavola, avvertiti dal cameriere della mia strana agitazione, erano usciti dalla sala, e vedendomi scendere, s’eran fermati nell’atrio, guardandomi come si guarda un matto scappato dall’ospedale. Io diventai rosso come una fragola, il che accrebbe il loro stupore. Arrivato nell’atrio, lasciai cadere la pesante valigia, e rimasi immobile, guardando le punte dei piedi dei miei spettatori. Tutti mi tenevano gli occhi addosso e nessuno parlava. Ero avvilito, come non sono stato mai in vita mia. Perchè poi? Non lo so. So che mi vedevo una nebbia davanti agli occhi, che avrei dato un anno di vita per sparire di là come un lampo, che maledivo i viaggi, Alkmaar, la lingua olandese, la mia stupidaggine, e che pensavo a casa mia come un profugo abbandonato dagli uomini e da Dio. Tutt’a un tratto, un ragazzo sbucato di non so dove, prese la mia valigia e si allontanò rapidamente accennandomi che lo seguissi. Lo seguii senza domandar altro, attraversai una strada, infilai un portone, passai per un cortile, e arrivai a un altro portone che dava sur un’altra strada, dove il ragazzo si fermò, buttò in terra la valigia, si fece dare la mancia, e senza rispondere alle mie domande, mi piantò su due piedi. Dove m’aveva condotto? Che cosa dovevo far là? Quanto ci sarei stato? Che sarebbe seguito di me? Era un mistero. Cominciava a imbrunire. Passavano per la strada contadini e contadine a braccetto, frotte di ragazzi