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388 HELDER.

è vero, in mezzo a due sponde, ma alta e minacciosa, che pare aspetti la prima occasione per riconquistare la sua spaventosa libertà. La terra, intorno alla città, è nuda e desolata, e il cielo, quasi sempre nuvoloso, è attraversato da grandi stormi di uccelli marini. La città stessa, formata da una sola fila di case, pare che abbia coscienza della sua postura arrischiata, e aspetti d’ora in ora una catastrofe. Quando il vento fischia e il mare mugge, si direbbe che ogni buon helderese non abbia a far di meglio che chiudersi in casa, dire le sue orazioni e poi ficcare la testa sotto le lenzuola ed aspettare quello che Dio manda.

La popolazione, che conta diciottomila anime, è altrettanto singolare che la città. È una mescolanza di negozianti, d’impiegati regi, d’ufficiali di marina, di soldati, di pescatori, di gente arrivata dalle Indie, di gente che si dispone a partire, e di parenti di chi arriva e di chi parte, andati là per dare il primo abbraccio o l’ultimo addio; perchè è quello l’estremo angolo di terra olandese che il marinaio saluta partendo, e il primo ch’egli vede al ritorno. Ma essendo la città così lunga e sottile, si vede pochissima gente; e non si sente altro rumore che le cantilene lamentevoli dei marinai che rattristano il cuore come grida di naufraghi lontani.

Benchè giovanissima, Helder è ricca di grandi ricordi storici al pari d’ogni altra città olandese. Essa ha visto il gran pensionario De Vitt attraversare per il primo, in un piccolo battello, lo stretto di Texel,