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FRISIA. 445

La mattina per tempo partii per Groninga, recando con me, malgrado la persecuzione della musica, un caro ricordo di Leuwarde e delle poche persone che ci avevo conosciute, amareggiato però da un rammarico che mi dura ancora: quello di non aver visto scivolare sul ghiaccio le belle, ardite e severe figlie del Nord, che passano, come dice Alfonso Esquiroz, avvolte in una nuvola e coronate d’un nembo d’oro e di trine, simili a figure fantastiche intravvedute sognando.


La pianura olandese, che veduta la prima volta, desta un senso vago e gradevole di malinconia, e presenta nella sua uniformità mille aspetti nuovi e mirabili, che divagano l’immaginazione, finisce però col generare stanchezza e noia anche in chi sia per natura meglio inclinato a comprendere e a godere la sua maniera particolare di bellezza. Vien sempre un giorno, in cui lo straniero che viaggia in Olanda, sente improvvisamente un desiderio irresistibile di altezze che gli facciano sollevare gli occhi e il pensiero; di curve su cui lo sguardo possa salire, precipitare, aggirarsi; di forme che l’immaginazione possa animare con quelle vaghe e meravigliose rassomiglianze di dorsi di leoni, di fianchi di donne, di profili di visi e d’edifizi, che presentano i poggi, i monti, le rupi del suo paese. La mente e gli occhi sono sazi di spaziare e di smarrirsi per quel mare sconfinato di verzura: hanno bisogno di cime, d’abissi, d’ombre, di az-