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del chiabrera 165

XXVI

PER IL SIG. JACOPO MAZZONI.

Ciò, che ne’ chiostri per lo tempo antico
     Già risonò dell’Accademia Argiva,
     E ciò, che s’intendea nel gran Liceo,
     Io tutto seppi: or pervenuto a morte
     Certo son, che giammai nulla non seppi:
     Nacqui in Cesena, e de’ Mazzoni: caddi
     Con negra chioma nell’uman cammino,
     Ma bella morte nostra vita eterna.

XXVII

PER IL SIG. BERNARDINO BALDI.

Alma cortese, che quinci oltre passi,
     Riposa alquanto i piè; ti prega il Baldi,
     Che non t’incresca d’invïar preghiere
     Per lui qui chiuso al Redentor del Mondo:
     Questo è quanto appartiensi a’ già sepolti,
     Tutto altro è nulla: se notar suoi pregi
     Fosse opportuno, fora poco il sasso
     Di questa Tomba: quel che già scrivea
     Lo Stagirita, e che scrivea Platone,
     Fu gentile tesor della sua mente;
     E per dolce compagno ebbe Archimede.
     Ne men colse l’onor delle ghirlande,
     Che intrecciano le Ninfe in sul Permesso.
     Al fin se sollevando alto da terra
     Fermò l’orecchie ad ascoltare il canto,
     Che già sacraro di Sionne i regi,
     E sul Libano pose il suo Permesso.
     Felice lui, che della lunga etade
     Non fece, come suolsi un vulgar sonno,
     Ma veramente egli la visse. Urbino
     Di lui s’onori, o Passaggiero, addio.

XXVIII

AL SIG. SPERONE SPERONI.

Umano ingegno non mai scorse Invidia
     Con più veneno di viperei sguardi,
     Che il grande ingegno di Speron. Nè mai
     Fu calpestata per ingegno umano
     Nemica Invidia con valor più grande,
     Che per l’ingegno di Speron. Ben degno
     Fu, che vivendo l’ammirasse Italia,
     Come suo pregio, e che oggi morto il pianga,
     Con dolore immortal, come suo pregio
     Degno è non manco. Può vantarsi Grecia
     Di molti chiari; ma se Italia prende
     Vanto a volersi dar di costui solo,
     Senza contrasto, abbatterà quei molti.
     E se lo soffra Grecia. Oltra ottant’anni
     Ebbelo lieto il Mondo, e può temersi,
     Che ottanta lustri volgeranno i Cieli,
     E di spirto simil non sarà degno.
     Morte, se gode in rimirare i danni,
     Che fa sua falce infra l’uman lignaggio,
     Sieda su questa Tomba. Altrove in terra
     Ella non speri rimirarne uguale.

XXIX

PER IL SIG. RAFFAEL D’URBINO.

Per abbellir le immagini dipinte,
     Alle vive imitar pose tal cura,
     Che a belle far le vere sue Natura,
     Oggi vuole imitar le costui finte.



LE VENDEMMIE

DI PARNASO


I


Su questa lira
     La bella Clio dipinse
     L’orribile cinghial, che Adone estinse;
     E qui sospira,
     5Tinta di morte il viso,
     Ciprigna il caro anciso.
Sì detto affanno
     Alla mia man ricorda,
     Che per canto d’Amor non tocchi corda:
     10Crudo tiranno,
     E che non sparge speme,
     Salvo di doglie estreme.
Dunque giojoso
     A te consacro i versi,
     15A te, che di Trebbian nettare versi,
     Dio pampinoso,
     Per cui lieta si avanza
     Ne’ miseri speranza.
Son io sentito!
     20Mal vive uom, che non beve:
     Su, su rechesi vin, rechesi neve.
     Io tutti invito,
     Beviam, che non è ria
     Una gentil follia.

II

Lodasi la Vendemmia.

Parmi, caro Pizzardo,
     L’Autunno a venir tardo,
     Con tal desio l’aspetto;
     E tanta smania in petto
     5Ho di tôrre alle viti
     Gli acini coloriti:
     Venturose giornate
     A ragion desïate;
     Veder chiome canute,
     10E fresca gioventute
     Gir per la Vigna intorno,
     E come s’alza il giorno
     I coltelli arrotare,
     E i grappoli tagliare.