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306 POESIE

     Forse ci ha dell’infamia?
     E quale infamia? Io vo’ lasciar da canto,
     Che l’infamia non sozza
     Quanto l’oro abbellisce;
     Puossi dir atto reo
     Vietar ch’una fanciulla
     Non perda sua ventura
     Per un vano appetito?
     Qual giorno se non tristo, è per avere
     Gelopea nell’albergo di Filebo?
     Se tuttavia Filebo
     Albergo ha, che sia suo;
     Dove all’incontro in casa di Berillo
     Starà sempre giojosa,
     E per comandar sempre a molte greggie,
     A molti armenti; parmi
     Ch’ella mi debba render grazie, quando
     Udirà ch’io fui mezzo
     A farle tanto bene,
     D’altra parte non niego
     Che’l misero Filebo
     Non sia per iscannarsi, ma ciascuno
     Non deve in questo mondo esser felice;
     Che la felicità a mio parere
     In questo mondo è fatta
     Sol per li possessor delle ricchezze.
     Ma lascia ch’io ricerchi,
     E ch’io trovi Filebo, e ch’io l’ammazzi
     Con la verace angoscia
     D’una finta novella.


ATTO TERZO


SCENA PRIMA

Filebo e Nerino.

Fil. Voleva pur Ergasto
     Menarmi ad uccellar per le montagne,
     E m’empiva la testa
     Di mille sue promesse
     D’ogni forte diletto;
     Ma per certo il mio core,
     Che contrasto d’andarvi
     Era fatto indovin della ventura,
     Che doveva incontrarmi:
     Ergasto, o che diletto
     Perder tu mi facevi
     Co’ vani tuoi diletti.
     Io dianzi andava intorno alla magione
     Della mia Gelopea
     Bramoso di veder quei suoi begli occhi,
     Ond’io mieto ogni bene,
     Ed ecco, ove io son presso alle sue case,
     Ella si mostra fuore
     Della sua fenestrella,
     Bella come un bel giglio;
     Ridevano quegli occhi, ed a mirarli
     Eran pieni di foco,
     Ma di foco soave,
     Che ricreava il cuore,
     Sì come il Sol ricrea
     Un fioretto gravato
     Dall’ombra della notte;
     Rideva quella bocca
     Di perle, e di coralli,
     Ove han riposto il meglio degli odori
     Le rose, i gelsomini
     Le viole, i giacinti.
     Io pieno di dolcezza,
     Che quasi mi uccideva
     Passava avanti, parte rivolgendo
     Gli occhi verso il suo volto,
     E parte inverso terra:
     Ma quando io fui vicino, ecco ella lascia
     Uscir delle sue mani
     Questa fascia di seta, che cadendo
     Ferimmi in sulla spalla;
     E poscia sorridendo si nascose;
     Or questa cara fascia,
     Sì come è vero segno
     Del suo fervido amore,
     Così sarà la pompa
     In ogni tempo e loco
     Della persona mia:
     Ne mi terrò men ricco o meno adorno
     Che s’io fossi guernito
     Tutto d’argento e d’oro.
     E perchè questo giorno in che son tanto
     Caramente onorato
     Viva ben lungamente,
     Voglio a forza intagliarlo
     Nel piè di quel cipresso
     Sotto cui si rauna i dì solenni
     Tutta quanta la villa.
Ner. Ecco pur finalmente
     Ho trovato costui.
Fil. Negli anni che verranno, i pastorelli
     Che leggeran quest’anno
     Colà dentro scolpito,
     Faran lungo sermone
     Di tanta mia ventura,
     E se saranno amanti
     Sospireranno i miei si dolci amori.
Ner. E ben che me gli appressi
     Non forse si partisse.
Fil. Ed io benchè sepolto
     Di sì fatta memoria arò diletto.
Ner. Dio sia teco, Filebo.
Fil. E sia teco Nerino; ove ne vai?
Ner. Vado appunto cercando
     Della persona tua.
Fil. Io mi son qui ben pronto
     Ad ogni tuo servigio, or mi comanda.
Ner. Non ho che comandarti;
     Solamente ti prego che m’ascolti,
     Perchè son per parlarti
     D’affari assai ben gravi.
Fil. Così farò: comincia.
Ner. Filebo, con Lucrino
     Tuo padre ebbi amicizia
     Ben stretta e ben leale; e poi che morte
     Ne lo colse, ho serbato
     Verso te suo figliuolo
     Quel medesimo amore: e se fortuna
     Accompagnasse il mio buon desiderio