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del chiabrera 339


S. Io, leggendo i commentatori della Poetica d'Aristotele, o altri che senza commentario uomo mortale lo sosterrà, ho ho ciò che voi dite bene osservato, e presone maraviglia.

V. Il Castelvetro rimove dall’epopea l'ottava rima, come un modo di verseggiare non libero. Il Piccolomini loderebbe il verso sciolto, ma dassi vinto alla vaghezza del popolo. Giasone de Nores commenda senza altro riguardo lo sciolto. Francesco Bonamico nelle sue Lezioni con che difende Aristotele da’ biasimi datigli dal Castelvetro, fa il smagliante.

S. Vorrebbe sciogliere il verso dalla lima, ma teme non offendere l’orecchio del popolo.

V. Così è come voi dite. Veggiamo che il loro senno vorrebbe porre una legge, ma paventano tumulti popolari; ma se la legge è diritta, non è da disperare che i popoli non si traggano fuori d’inganno.

S. Io confesserò la debolezza del mio intelletto: se si considera come ragionevolmente debba verseggiarsi nell’epopea, panni che l'obbligo della terza e dell’ottava rima sia da condannarsi, perciocché sono sembianze di canzoni, e fanno la rimazione in pezzi; ed anco veggio che la roma è finalmente una figura che fa bello il favellare, si come molte altre; e si come le altre, usandosi ad ogni ora, manifestarebbono picciolo senno nello scrittore, così forse il manifesta questa figura che noi rima appelliamo; ed essendo fra loro diverse le maniere del dire, una figura non fia forse dicevole a tutte.

V. Forse dirassi ch’ella sia perfezione ad ogni maniera di parlare.

S. lo noi crederò, perciocché la ragione noi consente; se io mi rivolgo fissamente alla ragione di quest'arte, io veggo che rimare il verso non è eccellenza, ma se io leggo le poesie rimate, non posso giudicare a favore del verso sciolto.

V. Io ne vengo con voi; ma ciò è perchè i poemi con verso sciolto non hanno, per altro, pari eccellenza a quelli de’ poemi rimati.

S. Io vi veggo molto avverso alla rima.

V. Non avverso alla rima per verità, per ciò che il nostro volgare senza rima panni che non s'acconci al poetare eccellentemente; ma un poema narrativo non posso mirarlo tra legami di terza o di ottava rima; per ciò che egli doverebbe essere franco a volontà del poeta, e potersi posare su tre, e su quattro versi, e su cinque, e su tre e mezzo, e comunque al maestro più fosse a grado; oltra che il verso, cosi fattamente rimato, sforza a commettere errori, e non è possibile a non errare col perpetuo obbligo della rima.

S. O carissimo, questa è un alta sentenza.

V. Alta, ma fondata su la verità.

S. Penerete a provarla.

V. Io non dico impossibile come nelle scuole dei filosofanti s’intende questa parola; ma voglio dire, che uomini divini per la forza della rima hanno peccalo poetando, e non rare volte; e se Dante, e se il Petrarca, se l'Ariosto, se il Tasso non hanno tanto valore avuto di non cadere sotto sì fatto peso, quale ingegno di uomo mortale mortale lo sosterrà?

S. A bello agio, Vecchietti; questi sono personaggi da riverire.

V. Da riverirsi con infinita umiltà; ma guardate che io non biasimo questi ammirabili poeti, ma biasimo il verseggiare rimato; nè posso più fortemente biasimarlo, nè con ragioni più forti, che dimostrando il danno per lui venuto ad uomini immortali. Nascerà forse coraggio cotanto ardito, il quale presuma di stare in piedi là dove costoro sono caduti? Sorgeranno intelletti meglio dotati dalla natura, e addottrinati più grandemente? Io dicoche se Ercole non avesse espugnato l'idra, l’idra doveasi chiamare inespugnabile: ma se costoro non furono superiori alla rima, niuno, poetando, le sarà salvo inferiore.

S. Dunque voi sbandite le rime da’ versi toscani? non sonetti, non canzoni faransi rimati?

V. Ciò non dico io: altra maniera è la lirica, altra l'epica.

S. Veggio alcuna ragione del vostro così dire, ma pure voi disperate, che epico poema possa perfettamente comporsi con l'obbligo della rima perpetua?

V. Io lo dispero, perchè Dante, Petrarca, Ariosto, Passo me ne fan disperare.

S. Dunque costoro peccarono?

V. lo non dico ch’essi peccassero; la rima fu che gli fece peccare.

S. Questo è favellare con riverenza: pure che dite?

V. Di bocca non può uscirmi che errassero ingegni sì singolari.

S. Se noi fossimo a santa Trinità, io non vi consiglierei a più dire; ma qui siamo soletti, e discorriamo di studi gentili. Altro non si saprà de' nostri discorsi salvo quanto per noi medesimi si vorrà; però raccontate a me, come furono soverchiati dalla rima questi famosi, ed in qual modo. Io veramente, leggendo i loro poemi, non badai a questo giammai, e sono dubbioso di ciò che voi affermate.

V. Io veramente non ne sono dubbioso, ma con lunga osservazione ho fermato in mente moltissimi luoghi, ne' quali la rima fa forza a questi domini grandi, e posso contarvene alcuni acciò voi comprendiate il mio intendimento: perchè discorrere lungamente, nè voglio si deè, e desidero che voi sinceramente udiate e non v’opponiate con l'ingegno al mio dire, per passione amorosa, onde siamo ammiratori di questi alti intelletti.

S. Questa è richiesta ragionevole, ed essi stessi il farebbono, che per eccellenti che stati siano, sono pure stati uomini.

V. Io procurovvi dunque come la rima alcuna volta fa loro dire soverchiamente, ed alcuna volta fa dirgli malamente; ed incominciando dico, che Dante scrivendo aver veduto

...Una Lupa che di tutte brame.
Pareva cavea con la sua magrezza
E molte genti fe' già viver grame1,

  1. Inf. canto 1.