Pagina:Opere (Chiabrera).djvu/369

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il replicare la rima sia ole, specialmente se essa rima fassi per parole già nella canzone rimate, ma nè anco vi affermo che il replicarla sia biasimo quando ella sì fattamente vien replicai i che all’ascoltare non reciti noia; e veramente gli antichi verseggiatori non si diedero quest'impaccio, e voi leggendo le rime lor, ve ne farete sincero. E sappiate, che Dante e Petrarca non ne presero guardia niuna, ed i più moderni similmente; ben vi dico che i poemi eroici, quanto alla forma di mettere i versi insieme, altro non sono che canzoni lunghissime; ora, in loro canto, non troverete che rima non abbia usata più d’una volta; e per verità molto sono minute queste osservanze, e da non prescrivere ad uomini i quali spirito abbiano di poesia: ed a costoro, tanto spaventosi d'intoppare in sì piccioli incontri, potrebbesi raccontare d’un motto di Michelangelo Bonarroti. Eragli mostrata una dipintura, ed a piedi era notato, ch’ella fatta fu senza oprarvi pennelli niuni, sorrise il grand’ uomo e disse: meglio era che il maestro adoperalo avesse i pennelli ed avessela falla bene. Alcuni sono i quali pregiansi di cose di niun pregio, e costoro malagevole la strada si fanno a camminar bene; pure per loro vaghezza sia la materia delle canzoni non esposta ad ingegni volgari, entrisi in lei per vie riposte, il poeta sappia fingere di partire ed a sua voglia tornare a lei, la sparga di belle sentenze, e siano ben sonori i versi e ben figurata la favella, e sempre lontana dal popolo ed acconcia a dar meraviglia; sia dico così fatta; che poi alcuna rima vi si legga raddoppiala non se ne metta affanno il compositore. Avete voi sentilo Pitagora? se voi ne riderete, io con essa voi sarò a ridere, perocché di cose piacevoli vuolsi favellare piacevolmente.

B. Sì tutti ragionamenti non hanno da far ridere nè da far piangere; sono materie di poco momento ed appartengono a poesia della quale può il mondo rimanere senza; non per tanto gli uomini, stati celebratissimi in terra, furono presi dalla vaghezza di questi studi e gli prezzarono; altri poi s’attennero a carte, a dadi, e di costoro, come di porci in brago, per parlare con note di Dante.....

P. Io non dico tanto; ma voi avete da chiedermi altro?

B. Ditemi, o mio Pitagora, le strofe che noi volgarmente chiamiamo stanze, nelle canzoni hannosi a far brevi ovvero lunghe?

P. Orazio brevi le fa leggere, Pindaro lunghe. Dietro ciascuno di costoro io non credo che possiamo fallire a buon porto; solamente io vi ammonirei che le canzoni, si come ne fa intendere il nome, si cantano, e però se il canto dovesse essere con quei passaggi di gorga e con quei modi eccellenti di artificio, io comporrei di strofe brevi, perchè le lunghe ammettersi in quella musica troppo più di tempo consumerebbono, che le orecchie dell’uditore comportassero con pazienza: ben è vero che per le lunghe potrebbesi canto ritrovare spedito e simigliante allo schietto favellare, ed io mi dò ad intendere che tale adoperassero i Greci nel recitare i cori della tragedia; ed in Firenze, nelle reali feste, sopra le scene comincia a farsi sentire, ma secondo me non ancora perfettamente. Ora voi potrete andare attorno e dire, cosi distògli: voi vi fate belle delle mie dimande, ma non per tanto a me son care le risposte datemi. E però qual consigliò dareste voi intorno all'usare gli idiomi d’Italia nei nostri scritti? appresso i Greci intendo che fossero usati.

Le provincie greche anticamente aveano alcune voci ed alcuni modi propri di parlare, o di più avea ciascuna alcuno scrittore; ed intendo dire che Teocrito scrisse doricamente, e Sofocle atticamente, e cosi esser dovea nelle altre provincie. Chi poi non voleva essere circonscritto dentro ad un paese, nè sola parlar quella lingua, usava di trascorrerle tutte, e di loro ogni vocabolo metteva ne’ suoi ragionamenti; e di sì fatta opinione odo dire che fosse Omero, il quale ed atticamente e doricamente e ionicamente e colciamente scrisse ne' suoi poemi. Così fatta era la Grecia nel suo favellare, ma oggidì non so se Italia le si assomigli: io veramente non ho letto scrittore milanese, né veneziano, nè bolognese che sia di pregio, ed il quale fosse bastante a porre in istato un linguaggio; e veramente chi traponesse un vocabolo lombardo o genovese in poesia milanesemente e genovesemente pronuncialo, forse lodalo non ne sarebbe.

B. Parrai d'affermare il vostro intendimento; ma chi pigliasse il vocabolo milanese, e poi in modo l'acconciasse ch'egli paresse toscano?

P. Ciò fare non sarebbe certo fare come fecero gli uomini greci, ma, secondo forse non errerebbe chi lo facesse. Di questa opinione parrai che volesse esser Dante, perciocché volendo egli chiedere nell’inferno uno che gli fosse scorta, disse:


La voce a provo quivi è senza dubbio genovese, ma egli, quanto all'atto di pronunziarla, toscaneggiolla in questa maniera. Poiché la lingua vive india bocca degli uomini, io darci il mio voto ch’ella si facesse copiosa; e se il Toscano non avesse fra sue voci alcuna necessaria al parlare, io loderei che alcuna straniera se ne accettasse; e quando pure ne avesse, ed io ne vedessi fra linguaggi stranieri delle più belle, io tuttavia loderei che le facesse sue. Dico, per meglio farmi intendere: latinamente dicesi diutunrnus; se in Toscana non si trova voce di questo valore e si trovasse in Lombardia, io darei consiglio allo scrittore che toscaneggiasse la voce lombarda, si veramente che ella riuscisse leggiadra e gentile alle orecchie degli uomini; ma senza alcuna di queste cagioni io rimarrei d’impacciarmi con le parole forestiere. Disse Dante una volta: