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del chiabrera 359

volgare italiano sì fatti esempj: calpestìo, cordoglio, verisimiglianza.

B. Questo discorso è come discendere a primi principi di questi studi.

P. Così è.

B. Ma quale intelletto sosterrà la molestia di condurvisi?

P. Quale? quello che sarà vago di condursi su la cima della poesia. Avete mai sentito dire, che nelle parole i grandi fanno sentire col suono delle lettere il concetto che essi trattano?

B. Non v’intendo.

P, Narrando, che un cavallo fosse in carriera, parrebbe egli ben fatto, che il verso fosse di piedi dattili, abbondanti di sillabe brevi?

B. A me parrebbe.

P. Così parve a Virgilio quando egli cantò:

Quadrupedante putrem sonitu quatit ungula campum:

E narrando che un fiume grosso se n’andava risonando, compose col suo divino ingegno questi versi, per ciò ammirabili:

Quae rapidum flammis ambit, torrenlibus amnis.
Tartareus Flegeton, torquetque sonantia saxa.

Al fiore del vasto intelletto, o Bamberini, bastano poche parole, e per voi stesse poi leggendo osserverete i sublimi pensieri de’ poeti eccellenti. Ma non voglio tacere, che la lettera u è tra gli uomini di suono melanconico e dolente. Virgilio, accorgendosene, e trattando di materia lagrimosa disse una volta:

               Jacetque superbum
Ilion, et omnis humo fumat Neptunia Troia.

Ove per verità piange il verso, sì come udite. Ed altra volta, lagrimando per la morte di Dafni, scrisse:

Pro molli viola, pro purpureo narciso
Carduus, et spinis surgit Paliurus acutis.

Nè meno di Virgilio se nc accorse Cicerone, quando, difendendo Milone, disse querelando: Quid me reducent esse voluistis si distrahor ab his per quos restitutus sum? E pure difendendo Plancio, e chiamandolo dolorosamente a se: Cui ex urge tamen precor. Voi, direte, Bamberini a me dilettissimo, perchè ragioni io si fatte cose? Io ne ragiono acciocchè veggiate che, per divenire grandissimi, costoro posero la mente anco a cose piccolissime, benchè non sono piccoli nè da poco pregiarsi questi artifizj, e se il giungere parole in uno non generasse maraviglia nell’uditore, e non facesse la scrittura altiera oltremodo. Virgilio non se ne mostrerebbe sì vago. Ecco nel sesto libro, ove egli e eccelso se mai fu tanto:

               male suada fames......
                    centum geminus Briareus.

Che dico io? Tricorpons umbrae, longeva Sacerdos

latratu regna trifauci. Dice che le porte, horrisono strident sonitu, ed altri ardimenti felicissimi. E ditemi, per vostra fede, stimate voi che la favella del prosatore sia una stessa cosa con la favella del poeta?

B. Non io per certo.

P. Stimate voi dunque, ch’ella sia meno o più nobile?

B. Più nobile.

P. Di donde sorge la nobiltà della favella? dalle maniere del dire usitate, o dalle peregrine?

B. Dalle peregrine.

P. Ma le figure che chiamano i maestri del parlare, sono maniere peregrine?

B. Senza dubbio.

P. E comporre parole, dirassi egli figura della favella?

B. Dirassi.

P. Io ho per costante, che le vostre risposte sieno verissime, e però giungerò due parole, ed aspetterò i vostri doni, se io meritati gli avrò, io mi rammento che Petronio Arbitro, il quale scrisse sotto l’imperio di Tiberio, voglio dire in secolo non isciocco, mi rammento, dico, ch’egli lasciò scritto queste parole: Minus quam duabus horis mecum moraris, et saepius poetice, quam humane locutus es. Certamente la parola humane, per opinione di Petronio, si oppone alla parola poetice: ma se il favellare poetico non è umano, quale sarà egli? bestiale, o divino?

B. Dico divino, perciocchè leggiamo persone divine favellare poeticamente.

P. Ottimamente, e con voi ne viene Orazio là dove egli scrive:

Surge, et inhumanae tedium depone Camenae,

ove appella la Camena inhumana, cioè divina.

Dico più oltre. Cicerone, nel terzo libro delle Questioni Tusculane, nomina Accio il quale scrisse: quis nam liberum florem invidit meum? e poi giunge: male latine videtur, sed preclare Accius, ut enim videro, sic invidere florem rectius, quam flori dicimus: nos consuetudine prohibemur? Poeta ius suum retinuit, et dixit audacius. Eccovi dunque, che il poeta dee dire con arditezza. Ora, assumendo, io vi affermo che il poeta non dee essere dimesso, ma altiero, e, pensando allo spirito che lo riempie, andare volando e fare che chiunque volge lo sguardo in lui rimanga maravigliato, ma intendendo di far ciò, egli dee essere discreto e contenersi nei confini della ragione, nè amare tanto sua libertà, che all’arte non si sottoponga. Altro non ho che dire, e forse ho troppo detto, ma se io ho commesso errore, voi erraste che dolcemente mi costringeste a dire.

B. Forse similianti ammaestramenti oggidì si dovrebbero degnare da coloro i quali ascendono a poetare. Ma noi andiamo, se vi pare, a’ Marmi, ovvero a Santa Trinità.