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eco d’una notte mitica 133

sopraffatto dal dolore non sa più quel che si dica”. Don Abbondio si scervella su Carneade: “Tanto il pover uomo era lontano dal prevedere che burrasca gli si addensasse sul capo!„ È il momento decisivo per Geltrude (così sin allora egli la chiama), che deve rispondere al prete sulla sincerità e libertà della sua vocazione. “Per dare quella risposta, bisognava venire a una spiegazione, dire di che era stata minacciata; raccontare una storia... L’infelice rifuggì spaventata da quest’idea„. La madre di Cecilia (chi non capisce subito di chi voglio parlare?) “stette a contemplare quelle così indegne esequie della prima, finchè il carro non si mosse, finchè lo potè vedere; poi disparve. E che altro potè fare se non posar sul letto l’unica che le rimaneva, e mettersele accanto per morire insieme? Come il fiore già rigoglioso sullo stelo cade insieme col fiorellino ancora in boccia al passar della falce che pareggia tutte le erbe del prato„. Quest’ultimo passo mi dispensa dal cercare i tanti luoghi di Virgilio dove egli mostra, per così dire, il suo viso o commosso o sdegnato tra i personaggi e i fatti da lui creati (ricordate Aen. I 716 e segg.: “Essa con gli occhi, essa con tutta l’anima, sta fissa in lui, e talora nel grembo lo tiene, e non sa Didone qual potente Dio a lei infelice sia sopra!„); mi dispensa, dico, dal cercare altri esempi, perchè me ne suggerisce uno che val per molti: la chiusa dell’episodio di Eurialo e Niso (Aen. IX 435 e segg.), in cui la commozione tenera e forte del poeta si rivela con una soave comparazione di fiori e con una promessa calda, divina, d’immortalità. Mutate il romano antico in cristiano moderno, il poema in romanzo: il “Fortunati ambo„ di Virgilio diventa il