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166 parte ii - capitolo ii

stato suo e de’ suoi nipoti. Invece, dopo aver esaminato in silenzio tutti i mazzi, i mazzolini, i vasi, i festoni della sala e della loggia, disse con un bonario sorriso: «sent on poo, Lüisa; con tütt st’erba chì farisset minga mèj a tegnì on para de pégor?»

Ma la governante fu beata di non aversi più ad ammazzare per la polvere e le ragnatele, ma l’ortolano vantò senza fine le opere miracolose del signor don Franco ed egli stesso cominciò presto ad abituarsi ai nuovi aspetti della sua casa, a guardar senza malevolenza il cupolino della terrazza che gli faceva comodo per l’ombra. Dopo tre o quattro giorni domandò chi lo avesse eseguito e gli accadde di fermarsi qualche volta a guardar i fiori del giardinetto, di chiedere il nome dell’uno e dell’altro. Dopo otto o dieci giorni, stando con la piccola Maria sulla porta della sala che mette nel giardinetto, le domandò: «chi ha piantato tutti questi bei fiori?» e le insegnò a rispondere: «papà.» Ad un suo impiegato venuto a fargli visita mostrò le opere del nipote e ne accolse gli elogi con un assenso misurato ma pieno di soddisfazione: «sì, sì, per questo sì.» Insomma finì con diventare un ammiratore di Franco e persino con dare ascolto, in via di conversazione, ad altri suoi progetti. E in Franco crescevano l’ammirazione e la gratitudine per quella grande e generosa bontà che aveva vinto la natura conservatrice, l’avversione antica alle eleganze d'ogni maniera; per la solita bontà