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270 parte ii - capitolo vi


Franco se la tolse in braccio, la baciò, l’accarezzò. Ella andava ripetendo fra i singhiozzi «papà mio, papà mio» con una voce accorata e grave che faceva male al cuore. Suo padre se ne struggeva tutto, le protestava di voler star sempre con lei e piangeva per il dolore d’ingannarla, per la commozione di quella tenerezza nuova che veniva proprio adesso.

Luisa pensava al grido di suo marito. Il Gilardoni s’accorse ch’era in sospetto di un segreto e le domandò, per toglierla da quel pensiero, se Franco intendesse partire presto. Fu questi che rispose. Dipendeva da una lettera di Torino. Fra una settimana, forse; tutt’al più fra quindici giorni. Luisa taceva e il discorso cadde. Franco parlò allora di politica, delle probabilità che la guerra scoppiasse a primavera. Anche questo discorso morì presto. Pareva che il Gilardoni e Luisa pensassero ad altro, che ascoltassero il batter delle onde ai muri dell’orto. Finalmente Ismaele ritornò, ebbe il suo punch, assicurò che il lago non era troppo cattivo, che si poteva partire.

Appena i Maironi furono in barca, appena Maria vi riprese il sonno, Luisa domandò a suo marito se vi fosse una cosa ch’ella non sapeva e che il Gilardoni non doveva dire.

Franco tacque.

«Basta» diss’ella. Allora suo marito le passò un braccio al collo, la strinse a sè, protestando contro parole che ella non aveva dette: «Oh Luisa, Luisa!»