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per il pane, per l'italia, per dio 359

Torino, io avessi il piano di Cavour in una tasca e quello di Napoleone nell’altra. È un bonapartista così sfegatato che gli è amara l’alleanza inglese e dice «la perfida Albione». Si teneva sicurissimo, del resto, della guerra a primavera e non gli piacque udire che vi sono dei dubbi. Credo che mi abbia subito ammirata meno. Quanto ad agire nel momento buono, dice che in Vall’Intelvi si faranno tagliare a pezzi, se occorre, «come micch». Perché parla sempre in plurale, dice «nün chì». Non ha l’aria d’uno spaccamonti. Parlando di venire alle mani coi Croati diventò più rosso dell’asso di cuori e vibrava tutto come un bracco quando gli si mostra un pezzo di pane. «Nün chì», mi disse, «gh’emm poeu anca el Brenta.» Sai, hanno a vendicare il Brenta, fucilato dagli austriaci. Insomma, se la parte mia, quando scoppierà la guerra, non fosse di liberare la «süra Peppina» e di buttare ai cavedini il suo Carlascia, andrei volentieri a battermi insieme al dottore di Pellio.

Ritornammo alle tre. Lo zio giuocava a tarocchi col curato, con Pasotti e col signor Giacomo. Il curato aveva la Gazzetta Ticinese e si era molto parlato di Sebastopoli. Si capisce che Pasotti ha una gran rabbia come tutti i todesconi. Invece il signor Giacomo era tutto intenerito per il suo Papuzza e il curato propose di bere una bottiglia alla salute di Papuzza. Allora lo zio Piero gli domandò se non aveva vergogna, egli prete, di festeggiare le buone fortune di Papuzza. «Mi l’era per bev»