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PREFAZIONE xvii

poesia greca in Grecia. «Nessuno, dice l’Ampère, osava accostarsi a quell’acqua, incriminata delle qualità piú funeste». — Nessun dubbio, mi sembra, che quest’orrido paesaggio reale fosse il germe dello Stige favoleggiato dai Greci giú nell’Averno. E mi sembra che così intendesse anche Pausania: tanto la cosa era evidente1.

E cosí, vicino ad Atene, sulla via dalla Pnice al Pireo, si vede una roccia che ha l’aspetto d’una vecchia seduta. Il Dodwell (Travels, I, 309 sg.) pensò, e mi sembra non ci sia da apporre, che questa singolare parvenza desse origine alla leggenda d’Aglauro, la fanciulla trasformata in pietra. Analogamente, sul monte Sípilo, una roccia di forma umana, dalla quale anche stillavano gocce perenni, diede origine al mito di Niobe, che esprime cosí mirabilmente l’impietrarsi dell’anima per un profondo dolore. Sofocle lo ricorda in una strofe, nella quale s’intrecciano e fondono stupendamente il dato naturale e lo sviluppo fantastico (Antigone, 823).

So che a morte miserrima soggiacque
su le vette del Sípilo
la stranïera frigia,
di Tantalo la figlia.
L’avvincigliò, tenace al pari d’ellera,
un germoglío di roccia,
e nevi e piogge cadono
su lei, che si dissolve a goccia a goccia.


Naturalmente, gli aeròliti, dei quali rimaneva la memoria che erano caduti dal cielo, divenivano germi di piú fantasiose leggende. In quello caduto presso a Pito, che ai tempi

  1. Parla di Omero, che ricorda lo Stige. E soggiunge: ταῦτα μὲν δὴ ἐποίησεν ὡς ἂν ἰδών ἐς τὸ ὕδωρ τῆς Στυγὸς στάζον.