Pagina:Poemi (Esiodo).djvu/217

Da Wikisource.
321-353 LO SCUDO DI ERCOLE 103

Giove che impera sui Numi beati, gran gloria v’accorda,
che morte a Cigno diate, che l'armi sue belle indossiate.
E un’altra cosa, o prode fra tutti i mortali, ti dico:
allor che della vita sua dolce avrai Cigno privato,
325lascialo, lascia l’armi sue belle ove cadde; e tu fissa
Marte omicida, mentre s’avanza, ove ignudo lo vegga,
sotto lo scudo ornato: qui vibra l’aguzzo tuo bronzo,
e indietro fatti, poi, ché fato non è che tu possa
predare né cavalli del Nume, né l’armi sue belle.
330Poi ch'ebbe detto cosí, sul cocchio la Dea fra le Dive,
che la vittoria e la gloria reggea nelle mani immortali,
balzò con un gran lancio. Iolao generato da Giove
die', con un grido orrendo, l'aíre ai corsieri; e a quell'urlo,
trassero, empiendo il piano di polvere, il cocchio veloce:
335ché furia in essi infuse la Diva occhicerula Atena,
che l’ègida scoteva: rombava dintorno la terra.
E a un tempo anche moveano, parevano fuoco o procella,
Cigno, l’equestre signore, con Marte mai sazio di pugne,
E, a fronte a fronte gli uni degli altri, d’entrambi i cavalli
340nitriti alti levarono, e l’eco s’effuse d’intorno.
     Ercole invitto disse fra loro le prime parole:
«Perché, stolido Cigno, spingete i veloci cavalli
contro di noi, cosí sperti di pene e travagli? Su via,
fatti in disparte col carro tuo ben levigato, il cammino
345lasciami libero, cedi. Io sono diretto a Trachíne,
presso Ceíce sovrano. Ché questi, col senno e la forza,
regna in Trachíne, bene lo sai da te stesso: ché sposa
hai la sua figlia, tu, Temistònoe dai ceruli cigli.
O stolido, se mai dovessimo a pugna venire,
350neppur Marte da te potrà tener lungi la morte.
Un’altra volta già, ti dico, dové fare prova
della mia lancia, quando, nei pressi di Pilo sabbiosa,
a fronte egli mi stette, per brama implacata di pugna.