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lxxviii ESIODO

Ecco l’aratore e il fanciullo che lo segue con la mazza per allontanare gli uccelli. Eccolo che afferra la stiva all’esterno del manico, incalza i buoi col pungolo, quelli si smuovono, le cinghie tendono il cavicchio. Vedete il mietitore imprevidente, che, allo scarso ricolto, siede in mezzo alle rarissime spighe, fra il polverone della terra non rassodata dalla florida umidità delle piante. Vedete il povero che si spreme con la mano scarna il piede gonfio dal gelo dell’inverno. Il poeta non descrive mai freddamente. Scorge, realmente, quello che dice, in una intima visione allucinatrice, dove tutto acquista la vita del sogno, chimerica e insieme piú evidente della vita reale. E come vede, cosí dipinge. Perché non bisogna credere che questa intima visione, che è l’ineliminabile presupposto d’ogni vera poesia, abbia luogo soltanto per i soggetti grandiosi e solenni. Essa ha luogo tutte le volte che il poeta è veramente preso dal soggetto, è veramente ispirato.

Quando l’idea nell’anima rovente
si fonde con l’amore,
divien fantasma, e ai regni della mente
vola fendendo il cuore.

E dalle azioni umane il poeta scende giú giú con osservazione altrettanto precisa ed amorosa, alle piccole creature e alle minime, sino agli insetti. Alla lumaca, che al tempo umido s’inerpica dal suolo sul gambo delle piante: al bruco che fra i geli invernali se ne sta nascosto sotterra, e volge attorno il capo per cercare un pascolo, e non lo trova1, alla vestigia che lascia sulla terra molle la zampina della cornacchia.

E l’osservazione è cosí intensa, che va oltre le apparenze, e dei fenomeni scopre il meccanismo segreto e nascosto.

Sentite, per esempio, la descrizione del canto della cicala:

  1. Vedi la nota al verso 524.