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cisa disposizione della materia. Già un fresco disordine val piú di una rigida precisione; e poi, le singole parti rimangono immutate, ciascuna con le sue caratteristiche e col suo pregio. Le belle rimangono belle, le bellissime bellissime.

E poiché qui torniamo a navigare nel mare magno del subiettivismo, dove c’è libero corso per ogni pirateria intellettuale, contro i giudizi di tanti sommi critici che deprimono l’antico poema, per esempio del Gercke, che lo chiama, spiccio spiccio, contadinesco, ricordiamo quello, entusiasta senza riserve, dell’unico artista d’Italia che quanto a perfezione possa gareggiare coi greci e coi latini: di Giacomo Leopardi.

E affrontiamo adesso, rapidissimamente, l’altro quesito: si deve credere che la Teogonia e Le Opere e i giorni siano dello stesso autore?

In realtà, a non volersi perdere dietro le fisime d’un razionalismo che in materia d’arte non ha alcun valore, non esiste nei due poemi alcun serio indice che dimostri il contrario.

E parecchi, invece, sembrerebbero accennare a identità di mano.

Per esempio, i brani relativi alla storia dei Giàpetidi, nella Teogonia, rispettivamente, e ne Le opere e i giorni, si rassomigliano in guisa, che quasi tollererebbero uno scambio.

E nell’uno e nell’altro poema è notevole una strana noncuranza dei Numi d’Olimpo, e un maggior interesse per l’informe coorte di demonietti cari alla credenza e alla superstizione popolare.

Ma quasi piú significativi sono per me la titanomachia e il brano su Tifone. C’è stato, è vero, chi anzi ha trovato una specie di incompatibilità fra queste orride scene e le miti pit-