Pagina:Poemi conviviali (1905).djvu/182

Da Wikisource.
162 i vecchi di ceo

no; non di cari figli altra corona.
Chè solo egli era. E per la via selvaggia
coglieva anch’esso erbe salubri o fiori,
per morbo insonne o florido convito:
ma, più certo, salubri erbe, chè un cespo
svelgendo allora da un sassoso poggio,
le vecchie rughe egli facea più tante.


     Ora gli stette agli omeri Panthide,
non anco visto, immobile, col fascio
dei lunghi steli dietro il dorso; e l’altro
sentì che un’ombra gli pungea la nuca;
e si voltò celando la mannella
della sua messe. Ma con un sorriso
a lui mostrò la sua Panthide, e disse:
«Oh!» disse «vedo. Non è crespo aneto,
Lachon, per un convito; non è mirto;
nè cumino nè molle appio palustre...»
Erano cauli con, nel gambo, rosse
chiazze e con bianchi fiorellini, in cima.
E Lachon interruppe: «Ospite, il Tempo,
che viene scalzo, all’uno e all’altro è giunto,
della cicuta; come è patria legge:
chi non può bene, male in ceo non viva — »
Disse Panthide: «Ricordiamo il detto
dell’usignolo che di miele ha il canto,
dell’isolana ape canora: Il cielo
alto non si corrompe, non marcisce
l’acqua del mare... L’uomo oltre passare
non può vecchiezza e ritrovare il fiore
di gioventù. «Noi ritroviamo il fiore
della cicuta!» con un riso amaro
Lachon riprese, e poi soggiunse: «Un fascio