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164 i vecchi di ceo

candido, la ronzante arnia degl’inni.
Ivi le frigie tibie, ivi le cetre
doriche insieme confondean la voce
simile ad un gorgheggio alto d’uccelli
tra l’infinito murmure del bosco.
Ivi sonava, dolce al cuor, la lode
del giovinetto corridore e il vanto
del lottatore; e per sue cento strade
l’inno cercava le memorie antiche,
volava in cielo, si tuffava in mare,
incontrava sotterra ombre di morti,
tornando, ebbro di gioia ebbro di pianto,
con due fogliuzze a coronar l’atleta.


     Era lontano, e non vedean che il bianco
dei marmi al sole, i due pensosi vecchi.
Eppur di là l’alterna eco d’un inno
giungeva al cuore, o forse era nel cuore.
Da destra il giorno si movea col sole,
portando il canto e l’opere di vita,
verso sinistra, al mesto occaso, donde
co’ suoi pianeti si volgea la notte
tornando all’alba e conducendo i sogni,
echi e fantasmi d’opere canore.
Fluiva il giorno, rifluìa la notte.
Sotto il giorno e la notte, e la vicenda
di luce e d’ombra, di speranza e sogno,
stava la terra immobile. Ma il coro
era più rapido. Arrivava un’onda
dal mare, un’altra ritornava al mare.
Era la vita. Dopo il moto alterno
d’un’onda sola che salìa cantando
scendea scrosciando, mormorava il mare