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VIII. SEMELE.

Ho ricordato più volte un detto comune: il meglio esser nemico del bene. Ora da qualcheduno mi è chiesta spiegazione; da qualche altro, che non abbisogna o mostra di non abbisognare di spiegazioni, è censurata la troppa mia riverenza a quel detto. Prima di tutto mi sembra dover dichiarare che cosa altri ed io c’intendessimo per quelle parole, indi mostrare la loro acconcezza riferendomi agli esempi della vita più ripetuti e più familiari.

Assai picciolo è il numero di quelli che non veggano il bene, quando per l’altra parte grandissimo è il numero di quelli, che, o fanno le viste di non conoscerlo, o, conosciuto che l’abbiano, battono tutt’altra strada. Non c’è gramo scolaretto a cui non sia nota la sentenza d’Ovidio posta in bocca a Medea, e chi non voglia impacciarsene co’ poeti del secolo di Augusto e col latino, ha tradotta quella sentenza medesima in tutte le lingue del mondo, e nei libri dei filosofi d’ogni tempo. Un artificio più fino della nostra malizia sta in questo, di voler carpire, abborrendo dal bene, una lode maggiore di quella che sarebbe conceduta naturalmente a chi lo operasse di tutta coscienza. Come questo? Ecco il come. Sopra il bene c’è il meglio, e questo meglio c’è sempre, qualunque sia il bene; dacchè alla nostra inferma natura, non che praticare,