Pagina:Satire di Tito Petronio Arbitro.djvu/118

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62 capitolo quattordicesimo

scellerato ammassò sopra un rogo tutte le statue di bronzo, d’argento, e d’oro, e mise loro il fuoco; da questa mistura si compose un sol metallo, e da questo composto i fabbri formarono vasi, bacini, e statuette. Così dalla mistura di tanti metalli ebbesi quel di Corinto, che non è nè l’un nè l’altro. Permettetemi ancor ch’io vi dica, che io amo più il vetro, ma costoro il ricusano. Se non si rompesse, io lo terrei più caro dell’oro; ma adesso egli è decaduto.

Vi fu già un artefice,58 il qual fabbricò vasi di vetro di tanta solidità, che non più si rompevano di quel che facesser quei d’oro, o d’argento. Avendo adunque fatta un’ampolla di questo vetro purissimo, ed unicamente degna, a parer suo, di Cesare, recossi a lui col suo regalo, e fu introdotto. Ne fu lodata la bellezza, commendata la manifattura, accettata la divozion del donante. L’artefice per convertire l’ammirazione de’ riguardanti in istupore, e conciliarsi del tutto la grazia dell’Imperadore, ripresa dalle mani di Cesare l’ampolla, la gettò fortemente contro terra, e con tanto impeto, che sarebbesi frantumato il più solido e duro metallo. Cesare a questa vista non soltanto istupì, ma spaventossi. Il fabbro levò da terra l’ampolla, che non era rotta, ma soltanto confusa, come se una sostanza metallica avesse usurpata la specie del vetro. Trattosi di poi dal seno un martelletto, corresse egregiamente la contusione, riparandola con molti colpi, come si farebbe di un vaso di rame. Dopo ciò ei si credette di aver toccato il ciel col dito, stimando di essersi meritata la confidenza di Cesare e la comune ammirazione. Ma accadde altrimenti. Imperocchè Cesare gli domandò se altri sapesse codesta manifattura; locchè egli avendo negato, l’Imperadore ordinò, che gli fosse mozzato il capo, dicendo che se quel segreto si manifestasse, l’oro e l’argento sarebbero inviliti come fango.

Io son passionato per l’argento. Tengo dell’urne