Pagina:Satire di Tito Petronio Arbitro.djvu/154

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98 capitolo diciottesimo

vrebbe svegliata il fuoco addosso; e forse avremmo dovuto dormir sull’uscio, se un procaccio di Trimalcione non sopravveniva con dieci carrette, il quale trattenutosi un momento a picchiare, buttò abbasso la porta, e ci diè luogo ad introdurci per la stessa apertura.

Entrato in camera mi misi in letto col mio ragazzo, dove lautamente pasciuto, e pien di prurito m’ingolfai ne’ piaceri.


Oh che notte fu quella!
    Che molli piume, oh Dei!
    3Caldi ci avviticchiammo,
    E coi labbretti aguzzi
    Diffusimo qua e là l’anime erranti.
    6Addio cure, e da questo
    A morire m’avvezzai.


Ma non ho ragion di allegrarmi. Perchè liberato dal vino e colle mani intorpidite, Ascilto, d’ogni ingiuria ritrovatore, mi rapì quella notte istessa il ragazzo, e lo portò nel suo letto, e divertissi senza alcun ostacolo con persona non sua; la quale, sia che non sentisse l’insulto, sia che lo simulasse, addormentossi tra le altrui braccia dimenticandosi degli umani diritti. Io risvegliatomi tasteggiai pel letto vuoto del mio piacere: e, se credere si deve ad un amante, stetti in pensiero se io avessi ad infilzarli col ferro, e il sonno loro maritar colla morte. Ma preso poi un più savio consiglio, svegliai Gitone collo staffile, e furiosamente guardando Ascilto, gli dissi: giacchè empiamente la fede hai violato, e la comune amicizia, prenditi tosto le cose tue, e cercati un miglior luogo alle tue sozzure.

Ei nulla oppose: ma quando ebbimo con ottima fede divisi tra noi i nostri furti, or bisogna, diss’egli, che anche il ragazzo ci dividiamo.