Pagina:Satire di Tito Petronio Arbitro.djvu/155

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leggerezza giovenile 99


Io mi credetti che costui scherzasse innanzi andarsene, ma egli con mano parricida afferrò la spada, e disse: tu non goderai solo di questa preda, sulla quale ti distendi: Bisogna darmi la parte mia, o io di buon grado con questa spada la dividerò. Lo stesso feci io dall’altra parte, ed avvoltomi intorno al braccio il mantello, mi misi in positura di battermi.

Tramezzo a questo trasporto di furore il fanciullo afflittissimo ci abbracciava, piangendo, le ginocchia, e umilmente pregava, che quella vile taverna testimonio non fosse di uno spettacol tebano, nè del reciproco sangue macchiassimo luoghi consecrati alla più amichevole famigliarità. Che se fa pur d’uopo (sclamava egli) di un misfatto, eccovi la nuda gola, qui rivolgete le mani, qui i coltelli piantate: a me spetta il morire, che il sacramento dell’amicizia ho tradito.

A codeste preghiere ritirammo le spade, e Ascilto fu il primo che disse: Io porrò fine a questa contesa. Resti il fanciullo stesso con chi vuol egli, onde abbia almeno la libertà di scegliersi il camerata.

Nessun timore mi presi io di questo patto, parendomi che l’antichissima convivenza si fosse convertita in vincolo di parentela, onde l’accettai tostamente, e la lite deposi nel giudice: il quale non deliberò in modo, che paresse di aver esitato, ma sul finire delle mie parole alzatosi prontamente, disse che in suo camerata eleggevasi Ascilto.

Io fulminato da questa sentenza, così senz’armi com’era, caddi boccone sul mio letticciuolo, e mi sarei per dispetto offeso colle mie mani, se non avessi sentito invidia della vittoria del mio nimico.

Ascilto sortì orgoglioso colla sua conquista, e così lasciò derelitto in luoghi stranieri un compagno poc’anzi carissimo, e per eguali fortune non dissimil da lui.