Pagina:Satire di Tito Petronio Arbitro.djvu/157

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leggerezza giovenile 101

l’altro, oh Dei! il quale nello stesso dì, in cui dovea vestire la toga virile,87 s’indossò la stola, che non seppe fin dalla culla di esser uomo: che nelle galere si prostituì come donna, che dopo aver dissipato il mio, e sconvolto il subbio della sua libidine, or abbandona i nodi d’una vecchia amicizia, e a guisa di puttana tutto infamemente sagrifica per la tresca di una notte? Ora stannosene tutte le notti annodati gli amanti, e nella fiacchezza delle loro oscenità burlansi forse della mia solitudine; ma non impunemente per dio! perchè non son uomo, nè libero, se io non vendicherò la mia ingiuria nell’empio lor sangue.

Ciò detto cingomi di spada il fianco, e perchè la debolezza non diminuisse il mio sdegno guerriero, eccito le mie forze con maggior copia di cibi: sortii poscia, e come un furibondo m’aggirai per i portici. Ma intanto che con istupido e feroce viso ad altro non penso che a stragi ed a sangue, e che ad ogni tratto portava il pugno sull’elsa, che dovea vendicarmi, un soldato mi tenne d’occhio, che forse era o un vagabondo, o un assalitore notturno, e dissemi: di qual legione sei tu, camerata, e di qual compagnia? Avendogli io con franchezza falsificato il nome del capitano e della legione: oh bella, soggiunse egli, i soldati del vostro corpo vanno così in iscarpette? allora il mio volto e il tremor mio avendo scoperto l’inganno, ei m’impose di ceder l’armi, e schivare un mal maggiore. Privatone quindi, e così sfumata la mia vendetta, me ne tornai dietro alla locanda, e passatami a poco a poco la collera, mi trovai contento dell’insulto di quel monello.