Pagina:Satire di Tito Petronio Arbitro.djvu/172

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116 capitolo ventunesimo


Questa è adunque diss’io, la promessa, che tu mi hai fatto di non dir versi per tutt’oggi? Perdio, abbici almen riguardo, poichè non ti abbiam lapidato. Che se alcun di coloro qui fosse, che vengon a bere in questa taverna, e s’accorgesse, che qui hacci un poeta, metterebbe a rumore tutto il vicinato e noi per cagion tua subbisserebbe. Abbi compassione, e sovvienti della galleria e de’ bagni.

Sentendomi parlare in tal guisa quel buon ragazzo di Gitone rimproverommi, dicendo non istar bene ingiuriare un vecchio, e ch’io mi era dimenticato della buona creanza, dacchè mal trattava a tavola chi per mia cortesia vi sedea, e aggiunse molte altre parole di moderazione e di verecondia, che convenivano egregiamente alla sua bellezza.

Benedetta la madre che ti ha partorito, disse Eumolpione. Prevaliti delle buone sue qualità. Raro è che la beltà s’imparenti colla saviezza. Onde, perchè tu non ti creda di aver gittate le tue parole, sappi che trovi in me un affezionato. Io celebrerò in versi le tue belle doti. Io maestro ed aio ti seguirò quand’anche tu non me l’ordinassi: nè perciò potrebbe sdegnarsene Encolpo, il quale ha un altro amore.

Ben ebbe Eumolpione a ringraziar quel soldato, che mi avea tolto la spada, altrimenti io avrei presa nel di lui sangue quella vendetta, ch’io voleva fare di Ascilto. Di che si accorse Gitone, il qual per questo uscì di camera quasi per bisogno d’acqua, e così calmò la mia collera col prudente suo dipartirsi. Acchetatasi quindi a poco a poco la bile, così dissi ad Eumolpione: Io amo meglio che tu mi parli in versi di quel che tu in cotal modo a lui manifesti il tuo desiderio; io sono iracondo, tu lascivo; vedi perciò che l’un costume all’altro contrasta. Pensa dunque che sono un furioso, cedi a questo mio difetto, e, per dirtela più chiaramente, esci tosto di qua.