Pagina:Satire di Tito Petronio Arbitro.djvu/222

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166 capitolo ventesimottavo

Che de’ nemici poi divien bottino,
325Chi per cammin terrestre, e chi pel mare
Procaccia scampo, che la patria omai
Offre un asilo, più che il mar, dubbioso.
Altri vuol tentar l'armi, altri del fato
I decreti seguir. Quanto più grande
330Sorge il timor, tanto è il fuggir più presto,
E tra questo agitarsi, il popol pure
Fuor delle mura solitarie, ahi vista!
Corre ove il caccia l’atterrita mente.
Stringonsi al sen gli afflitti sposi, e l’uno
335Con la tremola man conduce i figli,
L’altra i penati si nasconde in grembo,
E le pareti lagrimando lascia,
E al nemico lontan morte desia.

    Ma perchè narro si leggieri cose?
340Coll'un Consolo e l’altro (oh scorno!) fugge
Quel gran Pompeo, terror del mar, spavento
Del fero Idaspe, e de’ pirati scoglio;
Colui che Giove con stupor tre volte
Trionfante mirò, cui la procella
345Dei flutti eusini, e la bosforic’onda
Sommessa rispettò; costui pur fugge,
D’essere imperador dimenticando,
E in quel turpe fuggir Roma abbandona
E la fama sua propria: E così il tergo
350Vedesti anche di lui, volubil Diva,
E ancor le spalle degli Iddii celesti
In sciagura sì ria: che a quella fuga
Il timor degli Iddii prestò consenso.

    Ecco infatti vagar per l’universo
355De’ pacifici Dei la turba afflitta
Abbominando quegli irati luoghi,
E la folla degli uomini fuggendo