Pagina:Satire di Tito Petronio Arbitro.djvu/246

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190 capitolo trentesimoprimo

diessi a lagrimare dirottamente ancor essa, ed a compiangermi, come io avessi ucciso, non un’oca pubblica, ma il padre mio. Finalmente stanco di tal seccatura dissi: Se io vi pregassi caldamente, non potrei per dio pagando espiarmi, quand’anche fossi reo d’omicidio? Eccovi due monete d’oro, acciò vi compriate i Dei e le oche.

E vedendolo Enotea, perdona disse, ragazzo, io sono inquieta per te; abbilo per segno di amore e non di malizia. Perciò faremo sì che nessun sappia la cosa. Ora tu prega gli Iddii acciò ti perdonino quest’azione.


A chi ha danar spiran propizi i venti,
    E la fortuna a’ suoi capricci serve.
    Con Danae si giaccia, ei può sicuro
    4Rendere Acrisio che sua figlia è casta.
    Scriva reciti versi, ei fa furore;
    Tratti ogni causa a suo piacer, le vince;
    È men grande Catone appetto a lui.
    8Giudice sia, decreti, ordini, imponga,
    A Servio, a Labeon153 può gir del paro.
    E’ molto dir: ma col danaro in mano
    Ogni cosa che brami acquisterai;
    12Giove possiede chi lo scrigno ha pieno.


In seguito ella mi pose in mano una scodella di vino, e alquanto distendendomi i diti con porri e con aglio mi purgò, e immerse nel vino alcune noci avellane, e secondo che stavano a galla o discendevano, ella traeva sue conghietture: nè in ciò m’ingannava, perchè naturalmente le noci senza midollo, e colme di aria doveano stare di sopra, e le piene andarsi a fondo.

Dipoi ripresa l’oca e sventratala, ne cavò il fegato sanissimo, e da quello mi predisse i casi futuri. Anzi, acciò orma non rimanesse della colpa, tagliatala a pezzi la infilzò nello spiedo, e imbandì un lauto mangiare a colui, che poc’anzi ella diceva doversi impiccare.