Pagina:Satire di Tito Petronio Arbitro.djvu/250

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194 capitolo trentesimosecondo

ziosa, dicendo che tutta la famiglia lagnavasi fortemente della mia negligenza, per cui rare volte io assisteva alle faccende, e che quella mia pratica mi sarebbe probabilmente stata funesta.

Compresi da ciò, ch’egli era consapevole de’ fatti miei, e che erasi forse venuto a cercarmi a casa: quindi mi diedi a interrogare Gitone se alcuno aveva chiesto di me. Oggi nessuno, rispose, ma ieri venne una donna pulitamente abbigliata, e dopo avermi lungamente parlato, e stancomi col suo tanto fiscaleggiarmi, finì col dire, che tu meritavi castigo e che sarai flagellato come schiavo se chi hai offeso durerà nella sua collera.

Mi dispiacquero grandemente queste notizie, e tornai da capo a lagnarmi della fortuna: nè ancora eran finiti i miei lagni che sopravvenne Criside, la qual corsami addosso con caldissimo abbracciamento, io pur ti tengo, disse, come ho sperato: tu se’ il mio desiderio, tu la mia gioia, nè questo mio ardore tu spegnerai, se col sangue tuo non l’ammorzi.

Assai mi turbò questa sfacciataggine di Criside, e studiai di mandarla via con belle parole, perch’io temeva che lo schiamazzo di questa matta non giugnesse alle orecchie di Eumolpione, il quale insuperbito della sua prosperità avea usurpata sopra noi un’aria da padrone. Studiai dunque ogni mezzo per acquietar Criside, finsi di volerle bene, le susurrai dolci parolette, insomma sì astutamente mi comportai, ch’ella mi credette innamorato: le esposi dipoi in qual pericolo ci trovassimo entrambi s’ella venisse sorpresa in camera mia, per essere Eumolpione corrivo a castigare per ogni menomo che. Ciò udendo ella sortì frettolosamente, tanto più che scorse Gitone ritornare in mia camera, dond’era uscito un momento prima ch’ella venisse.

Appena partita, uno de’ nuovi servi corse ad un tratto a me, dicendomi che il padrone era in grandissima collera per aver io mancato due giorni al mio ufficio, e