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162 sotto il velame


Si tratta certo d’una tristizia, quale di quelli per cui fu invano l’aer dolce e il sole e il logoro del divino falconiere. Ma non è essa il solo peccato di costoro. Essi furono rei di quell’altro, che così Virgilio definisce:1

               È chi podere, grazia, onore e fama
               teme di perder perch’altri sormonti,
               onde s’attrista sì che il contrario ama.

Il loro peccato è ben complesso: c’è un’esca che essi prendono,2 cioè quel podere, grazia, onore e fama ch’essi hanno; c’è il timore di perdere ciò che hanno, e questa è la tristizia; c’è in fine l’amor del male altrui; e questa è l’invidia. All’invidia dunque si va per mezzo della tristizia, e partendo dall’amor del proprio bene.

Abbiamo dunque due radici o due capi di mali: la concupiscenza e la cupidità. Non sono la stessa cosa. Di cupidità comincia a parlare il poeta, dove parla di lupa; al cerchio dell’avarizia. Quindi lussuria e gola sono sceverate da questa, e formeranno la concupiscenza. La lonza è dunque tutta l’incontinenza di concupiscibile, con questo, che una specie di essa, l’avarizia, e più propriamente nella lupa. Diciamo: la concupiscenza cioè lussuria e gola, più propriamente peccati carnali, e la cupidità o avarizia, che è mezzo tra carnale e spirituale. La concupiscenza divien tristizia, da tristizia divien malizia. L’avarizia diviene facilmente malizia. Senza quel tuffo nella tristizia? Abbiamo veduto che ella diviene

  1. Purg. XVII 118 segg. E cfr. XV 49 segg.
  2. Purg. XIV 145.