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che l’ira. Non si deve essere nè predone nè preda; nè pietoso nè crudele. Quello ha l’animo troppo molle, questo troppo duro: il sapiente ha da essere temperato. Alle azioni forti usi non l’ira, ma la forza (vim)„.1 E qui Dante correggeva: proprio l’ira, che è la cote della fortezza o il calcar della virtù. Senz’ira non si può entrare in Dite, esclama Virgilio. “I gladiatori scherma l’arte, espone (denudat) l’ira... Che mai levò di mezzo quel rovescio di Cimbri e Teutoni venutici di su l’Alpi... se non ciò che avevano ira per valore?„.2 Quest’ira dei Cimbri e dei Teutoni mi sa dell’3

                                      orgoglio degli Arabi
               che diretro ad Annibale passaro
               l’alpestre rocce, Po, di che tu labi.

Quelle tot millia erano superfusa Alpibus. E qui pure corregge Dante: Sì: ira fu la loro; ma la passione non generò che orgoglio; non fortezza. “Nessun altro affetto è più cupido vindicandi, che l’ira, e per ciò stesso inabile ad vindicandum, troppo avventato e pazzo; come ogni cupidità impaccia sè stessa nel suo fine„.4 E questo è il fatto del Minotauro che, correndo alla vendetta (vindicare non è vendicare; ma tant’è), “gir non sa„. 5 È l’ira che lo fiacca e lo fa morder sè stesso e poi lo manda in furia; sì che Dante può passare. Sicchè l’infamia di Creti, come di bestialità, è acconcio simbolo d’ira. “Se l’ira fosse un bene, non si troverebbe ella nei

  1. Sen. de ira ib. 17, 2.
  2. id. ib. n. I 11, 2. Calcar virtutis trovava Dante ivi III 3, 1.
  3. Par. VI 49 segg.
  4. Sen. de ira I 12, 5.
  5. Inf. XII 24, 15, 27.