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398 sotto il velame


È un consiglio a misurare il timor di Dio, questo. Chè dei doni si può fare anche mal uso,1 come afferma S. Gregorio, il quale, per esempio, dice che bisogna pregare “affinchè il timore, mentre più del giusto trepida, non c’immerga nella fossa della disperazione„. Chi vorrà dubitare, dopo questo raffronto, della presenza qui degli spiriti? Ma sopratutto è da notare che qui le anime orano col Padre Nostro.2 Ora questa preghiera vale per un fine generale e per un fine particolare. Per quest’ultimo, fa vedere che quei pentiti hanno il dono del timore: chè si conclude con le parole: libera nos a malo. Or Dio è temuto non come male, ma perchè infligge il male della pena. E si noti che le ultime parole:3

               quest’ultima preghiera, signor caro,
               già non si fa per noi, chè non bisogna,
               ma per color che retro a noi restaro;

rispondono a questo pensiero: “Il timore induce l’amore, a volte; in quanto l’uomo che teme di essere punito da Dio, osserva i comandamenti di lui; e così comincia a sperare; e la speranza induce l’amore„.4 Non bisogna quella preghiera per loro, perchè essi, sotto il greve carico, hanno la certa speranza del perdono e del premio, non temono più di essere puniti da Dio, e perchè l’amore (che essi significano con quel “signor caro„) già ha altre cause che il timor di quella pena, la quale, invece, lodano e amano. Ma il timor della pena domina in tutta la cornice sì che resta a Dante anche dopo che n’è uscito; come

  1. In Summa 1a 2ae 68, 8.
  2. Purg. XI 1 segg.
  3. ib. 22 segg.
  4. Summa 1a 2ae 42, 1.