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La calata a Palermo 179

tavano le lastre delle vie; e queste sì, queste servivano bene! Parevano fatte apposta. E con esse, visto o non visto, venivano alzate su delle vere mura, una barricata a dieci metri dall’altra; fin troppe, come disse poi Garibaldi. Vi lavoravano e uomini e donne e fanciulli, che si rissavano tra loro facendo a chi ubbidisse meglio, se dai panni, dai capelli, dall’accento, riconoscevano un garibaldino in chi comandava. Le popolane poi parevano furie. «Signuri, nui riciano ca di li nostri trizzi un’avianu a fari ghiumazzo pi li so mugghieri! Scillirati, infami!»1 E davano dentro da disperate a portar pietre e sacchi di terra.

Il Comitato delle barricate, composto di cittadini esperti ancora del 1848, presedeva a quel lavoro che metteva sossopra il lastrico di ogni via. E già si vedevano uomini sugli orli dei tetti ad ammonticchiarvi tegole, uomini sui balconi a preparar mobili da buttar giù, se mai le milizie borboniche si fossero avventurate.

Ma quelle milizie non si muovevano all’offensiva. Anzi, verso le sedici, come si diceva là all’uso antico d’Italia, il general Cataldo che occupava i pressi di Porta Macqueda, i Quattro venti e il Giardino inglese, assalito dalla città, tormentato alle spalle dai Picciotti, si ritirava al Palazzo reale; e al Palazzo reale si ripiegava il general Letizia, scacciato dal rione Ballerò. Sicchè al Palazzo e nella piazza e negli orti intorno, si trovavano da dodicimila soldati, sotto il generale Ferdinando Lanza, alter ego del Re, uomo di 72 anni che aveva a lato Maniscalco,

  1. «Signori, ci dicevano che delle nostre trecce n’avevano a fare cuscini per le loro mogli! Scellerati infami!»