Pagina:Storia della letteratura italiana - Tomo I.djvu/148

Da Wikisource.

Parte III. Libro I. 109

della Magna Grecia, in cui visse Pittagora, e dopo lui tanti e sì illustri Filosofi di lui discepoli, dovette certamente, secondo lui, risvegliar ne’ Romani il desiderio di esserne essi pure istruiti. Ma tutti i vestigj, che di questa Pittagorica Filosofia egli ha potuto trovare nell’antica Roma, si riducono all’uso di cantare ne’ conviti a suon di flauto le preclare geste degli antenati, e qualche genere di Poesia, che doveva essere usato, poiché nelle leggi delle XII tavole si vietava il valersene a danno altrui, e alla costumanza di accompagnare col suono degli strumenti le cirimonie de’ sagrifizj e i solenni conviti de’ Magistrati. Ma ognun vede, quanto deboli indicj son questi a provare, che lo studio della Filosofia fiorisse allor tra’ Romani. Anche per ciò, che appartiene all’eloquenza, Cicerone confessa, che non pargli di aver mai letto in alcuno Scrittore, che que’ primi Consoli di Roma, benché eloquentemente parlassero, fosser creduti Oratori, o che all’eloquenza fosse proposto qualchesiasi premio; Ma solo, soggiugne egli, qualche conghiettura mi muove a sospettarlo1 . La qual conghiettura però non è altra, se non quella, che adducesi anche dall’Abate le Moine, cioè che leggiamo esservi stati uomini possenti nel favellare, i quali in diverse occasioni seppero persuadere all’esercito, al popolo, a’ Magistrati qualunque cosa lor piacque. Conghiettura, la qual proverebbe, che studio di eloquenza vi ha ancor tra gli Artigiani più vili, e tra’ più pezzenti mendici, molti de’ quali si odono non rare volte usare ne’ lor bisogni singolarmente di una vivissima naturale eloquenza. Ma non è questa, di cui si cerca, quando si parla dello studio dell’Eloquenza; ma sì di quella, che coll’arte e co’ precetti si forma, come nella parte precedente si è dimostrato11. Appena sembrami degna di esser qui confutata l’altra ragione, che a provar l’eloquenza tra gli antichi Romani adduce l’Ab. le Moine, tratta dalle belle parlate dei Re, de’ Capitani, de’ Magistrati, che Dionigi Alicarnasseo, Livio, ed altri hanno nelle loro Storie inserito. Vi ha forse chi non sappia, essere parer comune tra’ dotti, che quelle parlate furono dagli Storici stessi composte, come più loro piacque?

  1. De Cl. Orat. n 14