Pagina:Storia della rivoluzione piemontese del 1821 (Santarosa).djvu/9

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IX


trava per la via un disgraziato, divideva con lui il soldo del povero. Se si ammalava la sua vecchia donna di casa, l’assisteva amorosamente come avrebbe fatto alla sua moglie, ai suoi figli. Se alcuno lo richiedeva de’ suoi consigli, ei gliene era largamente cortese, e ciò per un istinto irresistibile di cui non aveva neppur la coscienza. Perciò era impossibile conoscerlo e non amarlo. A Torino aveva un amico cui potè lasciare la moglie e i figli. Un altro amico lo seguì nell’esilio. Quando fanciullo era col padre nell’armata delle Alpi, gli fu dato per camerata un giovinetto del suo paese, di nome Bossi, che poi abbandonò l’esercito e il Piemonte e andò in Francia ove guadagnava coll’industria la vita. Egli perdè di vista il Santarosa, ma ne conservò memoria affettuosa nel cuore. Un giorno il nobile conte, caduto nella miseria, vide comparirsi davanti nella sua cameruccia del Quartiere Latino il povero Bossi, sorbettaio a Parigi, che avendo sentito dai giornali le avventure del suo giovane uffiziale, non cessò di cercarlo finchè non ebbe trovata la sua casa, e finalmente ora tutto lieto veniva a offrirgli i suoi poveri risparmi. Più tardi, quando il Santarosa fu imprigionato, il povero Bossi ogni mattina andava alla carcere con un paniere di frutte, e lasciava la sua offerta al prigioniero, col rispetto di un antico servitore e con la tenerezza di un vero amico.

Per qualche tempo il Santarosa visse tranquillo a Parigi, consolando cogli studii la sua miseria e l’affanno della patria lontana. Era tutto pieno dell’idea di giovare all’Italia, preparando scritture morali e politiche che rigenerassero ed educassero i popoli italiani. Chiamava ciò una cospirazione letteraria, e si confortava di poterla efficacemente intraprendere. Aveva ingegno, studii e cuore da ciò. Se la fortuna gli fosse stata meno nemica, noi avremmo avuto in lui un insigne scrittore di cose