Pagina:Su la pena dei dissipatori.djvu/5

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282 r. serra

tefice volle creare, alla stessa stregua che i fregi enigmatici del primo canto o i drammi simbolici del Paradiso Terrestre. Il che potrebbe esser fatto a buon diritto, solo se fosse accertato che la Commedia tutta quanta non è proprio altro che un immenso complicato sistema di geroglifici, fatti a celare e tradurre null’altro che una selva di sottosensi allegorici, anagocici, tropologici: che ogni figura, ogni particolare del gran quadro è la maschera ingegnosa che ricopre un sillogismo, un’astrazione; che è lecito quindi a noi smontare pezzo per pezzo l’immane scenario, per cogliere direttamente il mondo interiore su cui si modella. È poi vero?

Io non so. A ogni modo queste idee e questo metodo seguirono i commentatori che sopra ho citati; antichi, è ben vero: ma nell’antico agevolmente si può conoscere il nuovo; e per questo tanto mi fermo su loro.

Essi seppero trasformare la figurazione dantesca in un ingegnosissimo, come dire, mosaico, di cui ogni pietruzza sta da sè, con un suo proprio significato allegorico. In questo modo le ricerche, ch’io mi promettevo di fare, su l’invenzione della pena, diventano perfettamente inutili; chè troppo bene basta l’allegoria a render ragione di tutto.

Di tutto, forse, no; perché una cosa hanno scordato quei buoni commentatori, una cosa da nulla, sia pure, ma alla quale alcuno ha la malinconia di voler dare qualche peso.

Io voglio dire della poesia, dell’arte. So bene che far la parte, nello spiegar Dante, alle ragioni della poesia potrà parere a molti il gran rancidume rettorico. Ma so anche che certe verità, per quanto trite e volgari, non son però meno preziose; come, per esempio, che d’astrazioni non si fa poesia. So che i luoghi dove Dante fa del filosofo e dell’allegorista son ben diversi dagli altri, in cui fa del poeta; che i luoghi teologici del Paradiso, i più stupendamente versificati, son ben differenti da quelli, in cui rumoreggia l’eco della tempestosa sua ira, in cui riluce il sereno splendore de’ suoi affetti, de’ suoi ideali terreni. E riprova luculentissima me ne porgono quelle sue canzoni morali, in cui la poesia «cade faticosa e accasciata sotto il peso delle formole, delle distinzioni ed argomentazioni scolastiche».1

L’allegoria potrà bene aver dato a volta a volta lo spunto alle

  1. CARDUCCI, Le rime di Dante, in Opere, vol.VIII, p.103.