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DISCORSO SUL TESTO DEL POEMA Di DANTE.

LXXXVII. Chi però supponesse che Dante dopo la morte di Bartolommeo si partì malveduto da quella corte perchè rin- f;ceiò, non a C;lne, bensì ad Alboino l’amore agli adulatori e a’ buffoni, troverà che sì fatta ipotesi s’uniforma all’uso per- ])etuo delle tradizioni popolari, le quali nelle età mezzo bar- bare attribuiscono a’ principi celebri azioni e parole spettanti a’ loro predecessori; tanto più quanto Alboino fu di que’ molti,

Che visscr senza infamia e senza lodo.

Quasi innanzi di morire finì di regnare, arrendendosi sponta- neamente a’ consigli del suo fratello minore, il quale non toc- cava ventun anno d’età, allorché s’avverava la predizione: -

E pria che il Guasco l’altro Arrigo inganni Parran faville della sua vìrtute.

Papa Clemente V, nato Guascone, indusse Arrigo Imperadore a scendere nel 1310, e vedendolo ritroso a compi ace<i’gli nelle cose d’ Italia, fece sì che i preti sommovessero i popoli a non obbedirgli’. Onde i Padovani nell’anno seguente negarono di sottostare a’ vicarj imperiali. Cane venne allora investito di quel titolo in compagnia di suo fratello Alboino, e sottrasse Vicenza al dominio di Padova , non so con quanta virtù , da che vinse per forza d’armi e di patti ; poi, giovandosi del di- ritto della conquista, rise de’ patti ’^. Alboino morì che non era ancora finito quell’anno; e Cane dal principio del 1312 regnò solo. Fu quella razza, come alft-e molte, infamata per impa- zienza di regno da fratrie! dj fra’ SXiccessori di Cane. Pur men- tr’ era ancor nuova la dittatura miLtare che or una famiglia , or un’altra arrogavasi per la città, gl’individui tutti della casa signoreggiante erano costretti a viversi fedelmente confederati contro al popolo, e a’ nobili loro emuli. Non trovo memoria di alcun odio palese fra i tre figli d’Alberto; anzi pare che la loro grandezza prosperasse per la loro concordia. E quando pure a Cane della Scala non rinci-escesse di vedere tre suoi prede- d^ssori, e due d’essi ancor giovani sotterrati nel corso brevis- simo di undici anni; pur nondimeno non avrebbe potuto leg- gere senza risentimento, nò divulgare senza infamia un Poema, dove la memoria del padre suo discendeva macchiata fra’ po- steri; ne Dante si sarebbe attentato mai di mandarglielo. Chi pur credesse altrimenti e allegasse la strettissima famigliarità del Poeta e del mecenate, e 1’ ambizione de’ tiranni a ingran- dire i loro meriti per m«zzo delle ignominie de’ loro predeces- sori, e la viltà de’ poeti a compiacere a’ tiranni, faccia, se può, di additare alcune parole, dond’ esca che l’amicizia fra l’esule Fior’entino e l’ultimogenito di Alberto Scaligero avesse potuto


1 Commento dell’anonimo, Paradiso e XVIl, v. 82.

2 (ironiche di Padova, presso il Muratori, Annali, an. 1311.


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