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SUL TESTO DEL POEMA DI DANTE. 259

Pontefice Massimo come Giulio Cesare e i veri suoi successori; anzi mentre il titolo Imperiale stava nell’arbitrio di sette elet- tori, e tre erano preti, il diritto, finché non era santificato dal Papa, tornava spesso a guerre civili ed al niente. Fu sempre cura de’ Papi che trono nessuno di principi preponderanti tro- vasse mai stabile fondamento in Italia; e i Lombardi nati Ita- liani furono distrutti da Carlo Magno attizzato dalla Chiesa di Roma. Poscia , il nome di Cesare pervenuto a’ Tedeschi , i Re di Francia e i Pontefici perpetuamente rimasero federati nelle battaglie fra il Sacerdozio e l’Impero; e il Poeta poco dopo il suo esilio vide l’Italia a vischio d’essere venduta da Clemente V alla setta guelfa e ad un principe Francese che Bonifacio Vili aveva promesso d’ungere Re de’ Romani’. Dell’antiche origini e de’ progressi delle condizioni servili sino dal secolo Vili in Italia; dello stato in cui si trovavano a’ giorni di Dante; degli effetti potentissimi eh’ ebbero nel suo cuore, nelle sue fortune, nella sua mente, e nel suo Poema ; e degli ammaestramenti che gli Italiani d’oggi potrebbero derivarne, mi si affaccieranno spesse occasioni di riparlare. Or quel tanto che ne ho toccato, importa a manifestare che Dante, quantunque cercasse rimedio tardissimo e vano all’Italia, allora « fatta bordello ^ » da cinque secoli ; e lo aspettasse da popoli naturalmente nemici degli Italiani ; pur era il solo possibile contro alle libidini delle città popolari fornicatrici co’ Papi, e alle prostituzioni delle provincie dissanguate da’ lor dittatori militari a fine di comperare il ti- tolo da’ Tedeschi di Vicarj Imperiali, e il diritto di perpetuare le guerre civili. L’amore di Dante alla patria era forte e virile e fremente ; e il desiderio facevagli parere non molto difficile ciò che era appena probabile, e non dipendente dal volere e ].otere del genere umano ; ma dalla mutazione delle vicis- situdini della terra, le quali non si lasciano né preparare né prevedere. Dante avendo invocato anche Alberto d’Austria, che fu poi trucidato palesemente nel 1308 da un suo nipote, fa che la uccisione sia giudizio divino predetto da’ morti ad esempio d’Arrigo di Lussemburgo, suo successore all’Impero: —

Alberto Tedesco, ch’abbandoni Costei, eh’ è fatta indomita e selvaggia, E dovresti inforcar li suoi arcioni ;

Giusto giudicio dalle stelle caggia sovra il tuo sangue, e sia nuovo ed aperto, Tal che il tuo successor temenza n’aggia;

Ch’avete tu e il tuo padre sofferto, Per cupidigia di costà distretti, Che il giardin dello Impero sia diserto.

Vieni a veder Montecchi e Cappelletti, Monaldi e Filippesohi, uom senza cura, Color già tristi, e costor con sospetti,


1 Gio. Villani, lib. Vili, cap. 95.

2 Pwgatono, VI, 78.


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