Pagina:Ultime lettere di Jacopo Ortis.djvu/84

Da Wikisource.
82 ultime lettere d’jacopo ortis.

chiamava miei amici, e mi chiamavano benefattore. Io era il medico più accetto a’ loro figliuoletti malati; io ascoltava amorevolmente le querele di que’ meschini lavoratori, e componeva i loro dissidj; io filosofava con que’ rozzi vecchi cadenti, ingegnandomi di dileguare dalla lor fantasia i terrori della religione, e dipingendo i premj che il cielo riserba all’uomo stanco della povertà e del sudore. Ma ora s’attristeranno nel nominarmi, perché in questi ultimi mesi passava muto e fantastico senza talvolta rispondere a’ loro saluti; e scorgendoli da lontano mentre cantando tornavano da’ lavori, o riconduceano gli armenti, io gli scansava imboscandomi dove la selva è più negra. E mi vedeano su l’alba saltare i fossi e sbadatamente urtar gli arboscelli, i quali crollando mi pioveano la brina su le chiome; e così affrettarmi per le praterie, e poi arrampicarmi sul monte più alto, donde io fermandomi ritto ed ansante, con le braccia stese all’oriente, aspettava il sole per querelarmi con lui che più non sorgeva allegro per me. Ti additeranno il ciglione della rupe sul quale, mentre il mondo era addormentato, io sedeva intento al lontano fragore delle acque, e al rombare dell’aria quando i venti ammassavano quasi su la mia testa le nuvole, e le spingevano a funestare la luna che, tramontando, ad ora ad ora illuminava nella pianura co’ suoi pallidi raggi le croci conficcate su i tumuli del cimitero; e allora il villano de’ vicini tugurj, per le mie grida, destandosi sbigottito, s’affacciava alla porta, e m’udiva in quel silenzio solenne mandare le mie preci, e piangere, e ululare, e guatare dall’alto le sepolture, e invocare la morte. O antica mia solitudine! ove sei tu? Non v’è gleba, non antro, non albero che non mi riviva nel cuore, alimentandomi quel soave e patetico desiderio che sempre accompagna fuori dalle sue case l’uomo esule e sventurato. Parmi che i miei piaceri e i miei dolori, i quali in que’ luoghi m’erano cari — tutto insomma quello ch’è mio, sia rimasto tutto con te; e che qui non si trascini pellegrinando se non lo spettro del povero Jacopo.

Ma tu, amico unico mio, perché appena mi scrivi due nude parole avvisandomi che tu se’ con Teresa? e non mi dici nè come vive; nè se s’attenta di nominarmi; nè se Odoardo me l’ha rapita? Corro, e ricorro alla posta, ma senza pro; e torno lento, smarrito, e mi si legge nel volto il presentimento di grave sciagura. E mi par d’ora in ora udirmi pronunziare la mia sentenza mortale — Teresa ha giurato. — Oimè! e quando mai cesserò da’ miei funebri delirj, e dalle mie crudeli lusinghe? Addio.

Firenze, 17 settembre.

Tu mi hai inchiodata la disperazione nel cuore. Vedo oramai che Teresa tenta di punirmi d’averla amata. Il suo ritratto l’aveva mandato a sua madre prima ch’io lo chiedessi? — tu