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ultime lettere d’jacopo ortis. 95

risposi non ostante ch’ei s’apponeva; parlava veneziano; ed è pure la dolce cosa il trovare in queste solitudini un compatriota. E poi — è così stracciato! Insomma io gli promisi — forse può dispiacere al signore — ma mi ha fatto tanta compassione, ch’io gli promisi di farlo venire; anzi sta qui fuori. — E venga, io dissi a Michele; e aspettandolo mi sentiva tutta la persona inondata d’una subitanea tristezza. Il ragazzo rientrò con un uomo alto, macilento; parea giovine e bello; ma il suo volto era contraffatto dalle rughe del dolore. Fratello! io era impellicciato e al fuoco; stava gittato oziosamente nella seggiola vicina il mio larghissimo tabarro; l’oste andava su e giù allestendomi da desinare — e quel misero! era appena in farsetto di tela, ed io intirizziva solo a guardarlo. Forse la mia mesta accoglienza e il meschino suo stato l’hanno disanimato alla prima; ma poi da poche mie parole s’accorse che il tuo Jacopo non è nato per disanimare gl’infelici; e s’assise con me a riscaldarsi, narrandomi quest’ultimo lagrimevole anno della sua vita. Mi disse: Io conobbi famigliarmente uno scolare che era dì e notte a Padova con voi — e ti nominò. — Quanto tempo è ormai ch’io non ne odo novella! ma spero che la fortuna non gli sarà così iniqua. Io studiava allora. — Non ti dirò, mio Lorenzo, chi egli è. Dovrò io contristarti con le sciagure di un uomo che era un giorno felice, e che tu forse ami ancora? è troppo anche se la sorte ti ha condannato ad affliggerti sempre per me.

Ei proseguiva: Oggi venendo da Albenga, prima di arrivare nel paese v’ho scontrato lungo la marina. Voi non vi siete avveduto com’io mi voltava spesso a considerarvi, e mi parea di avervi raffigurato; ma non conoscendovi che di vista, ed essendo scorsi quattro anni, sospettava di sbagliare. Il vostro servo me ne accertò.

Lo ringraziai perch’ei fosse venuto a vedermi; gli parlai di te. — E voi mi siete anche più grato, gli dissi, perché m’avete recato il nome di Lorenzo. — Non ti ripeterò il suo doloroso racconto. Emigrò per la pace di Campo-Formio, e s’arruolò tenente nell’artiglieria Cisalpina. Querelandosi un giorno delle fatiche e delle angarie che gli parea di sopportare, gli fu da un amico suo proferito un impiego. Abbandonò la milizia. Ma l’amico, l’impiego e il tetto gli mancarono. Tapinò per l’Italia, e s’imbarcò a Livorno. — Ma mentr’esso parlava, io udiva nella camera contigua un rammarichio di bambino e un sommesso lamento; e m’avvidi ch’egli andavasi soffermando, e ascoltava con certa ansietà: e quando quel rammarichio taceva, ei ripigliava. — Forse, gli diss’io, saranno passeggieri giunti pur ora. — No, mi rispose; è la mia figlioletta di tredici mesi che piange.

E seguì a narrarmi, ch’ei mentre era tenente s’ammogliò a una fanciulla di povero stato, e che le perpetue marcie a cui la giovinetta non potea reggere, e lo scarso stipendio lo sti-