Pagina:Versi del conte Giacomo Leopardi.djvu/48

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Ne l’imo petto, grave, salda, immota
Come colonna adamantina, siede
Noia immortale, incontro a cui non puote
Vigor di giovanezza, e non la crolla
Dolce parola di rosato labbro,
E non lo sguardo tenero, tremante,
Di due nere pupille, il caro sguardo,
La più degna del Ciel cosa mortale.
   Altri, quasi a fuggir volto la trista
Umana sorte, in cangiar terre e climi
La età spendendo, e mari e poggi errando,
Tutto l’orbe trascorre, ogni confine
De gli spazi che a l’uom ne gl’infiniti
Campi del Tutto la Natura aperse,
Peregrinando aggiunge. Ahi ahi, s’asside
Su l’alte prue la negra cura, e sotto
Ogni clima, ogni ciel, si chiama indarno
Felicità, vive tristezza e regna.
   Avvi chi le crudeli opre di marte
Si elegge a passar l’ore, e nel fraterno
Sangue la man tinge per ozio; ed avvi
Chi d’altrui danni si conforta, e pensa
Con far misero altrui far se men tristo,
Sì che nocendo usar procaccia il tempo.
E chi virtute o sapienza ed arti