Pagina:Zibaldone di pensieri II.djvu/239

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226 pensieri (860-861-862)

stesso oggetto; che quella lingua contenne il piú di eleganza arbitraria che mai si vedesse, fu opera espressa dello scrittore piú che qualunque altra; abbisognò di sí  (861) profonda, sottile, minuta, esatta, e determinata cognizione non solo della sua indole, ma di ciascun modo, frase, parola, a volerla trattare senza offendere la sua sí propria e individuale e arbitraria altrettanto che definita proprietà, che, allontanandosi estremamente dal volgare, e formando subito due lingue separate, cioè la scritta e la parlata, s’impossibilitò ancora, sí per questa sí per quelle ragioni, alla universalità. Alcuni scrittori latini, che anche nel tempo della perfezionata loro lingua letterata si accostarono un poco piú degli altri ai loro antichi scrittori o al popolo, e conservarono maggiormente l’antico carattere della lingua, si accostarono altresí piú degli altri agli ottimi greci, furono piú semplici, piú facili e piani, meno contorti e lavorati ec. e si avvicinarono ancora al genio futuro della lingua italiana.      Tali furono Cesare, Cornelio Nipote, e sopra tutti Celso, del quale vedi quello che ho notato altrove,  (862) della gran somiglianza che ha, sí col greco, sí massimamente coll’italiano, tanto nell’andamento, come nelle minute forme, frasi, voci. E dovunque si trova nei latini scrittori un tantino di quel candore e di quella grazia nativa, che non fu mai proprio della loro letteratura, eccetto i primi e non perfetti scrittori; si trova altresí maggiore e notabile somiglianza col carattere della lingua greca e della nostra, e quindi anche del volgare latino, da cui la nostra è derivata, e a cui non dubito che Celso non si accostasse notabilmente, e piú che ogni altro classico conosciuto del secolo d’oro o d’argento. Tuttavia anche in questi scrittori medesimi si trova sempre un’aria di maggior coltura, una lingua piú lavorata, piú nitida, meno semplice, meno piana e naturale che quella degli ottimi greci, anzi in tal