Pagina:Zibaldone di pensieri II.djvu/44

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(505-506-507) pensieri 31

petuità del mio stato infelice e che, volgendomi disperatamente e freneticamente per ogni dove, non trovava rimedio possibile, né speranza nessuna; in luogo di cedere o di consolarmi colla considerazione dell’impossibile e della necessità indipendente da me,  (506) concepiva un odio furioso di me stesso, giacché l’infelicità ch’io odiava non risiedeva se non in me stesso; io dunque era il solo soggetto possibile dell’odio, non avendo né riconoscendo esternamente altra persona colla quale potessi irritarmi de’ miei mali, e quindi altro soggetto capace di essere odiato per questo motivo. Concepiva un desiderio ardente di vendicarmi sopra me stesso e colla mia vita della mia, necessaria infelicità inseparabile dall’esistenza mia e provava una gioia feroce ma somma nell’idea del suicidio. L’immobilità delle cose contrastando colla immobilità mia: nell’urto, non essendo io capace di cedere, ammollirmi e piegare; molto meno le cose; la vittima di questa battaglia non poteva essere se non io. Oggidí eccetto nei mali derivati dagli uomini, non si riconosce persona colpevole delle nostre miserie o tale che la religione c’impedisce in tutti i modi di creder colpevole e quindi degna di odio. Tuttavia, anche nella religione di oggidí, l’eccesso dell’infelicità indipendente  (507) dagli uomini e dalle persone visibili spinge talvolta all’odio e alle bestemmie degli enti invisibili e superiori: e questo, tanto piú quanto piú l’uomo (per altra parte costante e magnanimo) è credente e religioso. Giobbe si rivolse a lagnarsi e quasi bestemmiare tanto Dio, quanto se stesso, la sua vita, la sua nascita ec. (15 gennaio 1821).


*    Gli adulatori e gli amici dei tiranni non guadagnano altro se non di essere esclusi dalla misericordia che le generazioni future porteranno all’età e generazioni loro; e di partecipare all’odio senza essere