Pensieri e discorsi/Il sabato/VII

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VII.


E in religione? Egli era da fanciullo veramente pio: pativa anche di scrupoli e giocava all’altarino con la sua sorella. Recitava alla Congregazione dei Nobili, nella chiesa di S. Vito, i suoi sacri discorsi, e abbozzava inni cristiani. Come tetri questi inni! Al Redentore egli diceva: “Tu hai provato questa vita nostra, tu ne hai assaporato il nulla, tu hai sentito il dolore e l’infelicità dell’essere nostro...„ A Maria: “È vero che siamo tutti malvagi, ma non ne godiamo: siamo tanto infelici! È vero che questa vita e questi mali sono brevi e nulli, ma noi pure [p. 76 modifica]siamo piccoli, e ci riescono lunghissimi e insopportabili. Tu che sei grande e sicura, abbi pietà di tante miserie!„ Oh! certo il piccolo Giacomo leggeva un libretto, uno forse de’ molti della sua madre severa, così severa, che appena appena sfiorava il suo visetto sparuto con la mano offerta a un bacio; uno di quei libri, nei quali ella segnava le morti de’ suoi. Vi leggeva la terribile massima dell’Ecclesiaste: Vanità delle vanità ed ogni cosa vanità! Ma in quei primi anni che egli abbozzava l’inno al Redentore (”dice Gesù: dall’ora del mio nascimento infino alla morte mia sulla croce mai non fui senza dolore„) doveva confortarsi con l’aggiunta, che trovava nel libretto: fuorchè l’amar Dio e servire a lui solo. E amava e serviva. Ma intanto s’imprimeva sempre più nella tenera mente, disposta alla mestizia e alla devozione, “Rammenta che l’occhio non si sazia per vedere, nè l’orecchio riempiesi per ascoltare„. Ruzzava e trionfava nel giardino paterno; e non importava che Carlo facesse l’uffizio di schiavo ammonitore: esso poteva leggere nel libretto: “Non esaltarti per gagliardia o per beltà di corpo; la quale per piccola malattia si guasta e si disforma„. Ardeva del desiderio di gloria: leggeva: "Dove sono... quei maestri...? Di loro, si tace„. In verità a me par di vedere nel lugubre libretto la traccia, o volete l’embrione, di tante poesie e prose del nostro poeta. “La natura è scaltra e trae a sè molti, allaccia e inganna e sempre ha sè stessa per fine„. Indifferente di noi fa il Leopardi la natura:

 Ma da natura
Altro negli atti suoi
Che nostro male o nostro ben si cura.

[p. 77 modifica]“La natura fatica per proprio agio„ commenterebbe il monaco pensoso. Altra considerazione: “povero ed esule in terra nemica dove incontro guerra ogni dì e grandissime sciagure...„ Non pensava ad essa Giacomo non più devoto, non più pio, Giacomo negli ultimi tempi della vita, quando nella Ginestra stima gli uomini tra sè confederati contro l’Inimico? Non ricordava, sia pure incoscientemente, il modo cristiano di figurarsi la morte, come un soave abbandono del capo stanco sul petto del divino Redentore, quando diceva:

Quel dì ch’io pieghi addormentato il volto
Sul tuo vergineo seno?

Vero che non è più il seno di Gesù. Il Leopardi ha trasformato Gesù nella Morte, adornandola delle bianche vesti che indossava la donna che comparve a Socrate e gli disse:

Giungere fra i tre dì tu puoi alla zolle di Ftia.

Non ricordava egli l’umile preghiera, “Percuotimi gli omeri e il collo„, l’umile confessione, “Non son degno se non di essere flagellato e punito„, quando diceva, ribelle ai pensieri che alitavano dalla lontana fanciullezza,

La man che flagellando si colora
Del mio sangue innocente
3Non ricolmar di lode,
Non benedir com’usa
Per antica viltà l’umana gente,
6Ogni vana speranza...?

Vana anche quella speranza, vano anche quel conforto! Egli aveva cancellato la seconda parte di [p. 78 modifica]quella prima affermazione, e restava, nuda terribile la sentenza di Salomone:

Vanità delle vanità e tutto vanità.

Nè paia strano che il Leopardi attingesse da libri cristiani o religiosi la sua sconsolata filosofia. Lo osservò il Gioberti: “quando lo scrittore deplora la nullità di ogni bene creato in particolare,

E l’infinita vanità del tutto,

non fa se non ripetere le divine parole dell’Ecclesiaste e dell’Imitazione„. E, non so se dietro lui, la Teia scriveva: “Quale è il pensiero dominante negli scoraggiamenti, nei disgusti del figliuol di Monaldo? L’infinita vanità del tutto. E non è questo il mesto gemito di Salomone già da tanti secoli? Vanitas vanitatum„. Egli tutta la sua vita impiegò in commentare, ampliare, provare ciò che quei libri affermavano seccamente e solennemente. Ma ne aveva tolto già una paroletta di tre lettere, senza la quale quei libri divenivano vangeli di dolore: Dio.

Alle tante vanità proclamate nei libri sacri e pii, il grande pessimista ne aggiunse una: una sola!