Piccolo mondo moderno/Capitolo sesto. Vena di fonte alta/IV

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Capitolo sesto
Vena di fonte alta
IV

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IV.


Pensate un cornuto arcavolo mostruoso degli elefanti, invadente a muso basso l’ampia sua via, [p. 364 modifica]pôrto l’occipite nel sole di sotto la soma d’una piramide enorme, affondati i fianchi rigonfi nell’ombra. Così, fra le due strette valli incise dai fendenti di un dio, lo sperone che porta Vena di Fonte Alta si protende dalle radici di Picco Astore a fronteggiar con due corna il gran cavo di Villascura. Lassù nella loro cintura di abissi ondulano supini al cielo i pineti e i faggeti di Vena, macchiati di smeraldo chiaro dove il prato li rompe e dilaga, picchiettati di rosso e di bianco dove stormi di casucce si annidano. Chi li contempla dall’alto dell’obliquo alato Picco Astore o delle grandi montagne nubifere di Val di Rovese e di Val Posina, non legge il loro minuto poema squisito. Ma il viandante vagabondo per i sinuosi lor grembi si domanda se ivi non siansi amate un momento, sull’aurora del mondo, meste Intelligenze delle montagne e gaie Intelligenze dell’aria; se la terra obbediente ai loro mobili sensi non siasi composta e ricomposta intorno ad esse continuamente in talami oscuri, in alti seggi di riposo meditabondo, in scene di malinconia e di riso, di alti pensieri e di scherzi, che poi fermate al repentino sparir degli amanti abbian serbato per sempre l’ultima forma. Ogni cosa vi ha l’impronta di un sentimento, di una personale idea di bellezza, che ci movono a sospirare per un triste, [p. 365 modifica]indefinibile senso dell’assenza di qualcuno che ivi passò e che avremmo amato. All’erboso velluto di un pratolino appuntato nel faggeto fra due curve ali di scaglioni petrigni dove grandi abeti montarono, scena di preludi amorosi, segue sotto le dense, distorte braccia dei faggi un dedalo cadente di muscosi giacigli cavi nell’ombra chiara e verde come acqua immobile di lago in un vallone del fondo. Il sentiero che gira l’omero ignudo di un colle a scoprir lontane conche di pascoli, lontane guardie di acuti abeti allineati su alture terminali di quel paradiso, sdrucciola di là verso l’orlo di una coppa vuota incavata nel prato quasi dal roteare d’un vortice, ove fu dolce a qualcuno giacer sul fondo, contemplar il cratere imminente in giro, le felci pendule, gli ellebori, i ciclami, e sopra, nel bianco disco di cielo, il veleggiar eterno delle nubi. Il viandante ode tratto tratto nel vento vagabondo le diverse voci degli alberi diversi, le umili e le superbe, le tenere e le gravi. Vede sparsi nel bosco sedili di pietre candide, radi sedili di contemplatori solitari, adunati sedili di assemblee, scolpiti di geroglifici indecifrabili come i colloqui degli alberi, forse lavoro di uditori antichi, note di canti aerei fermate nel sasso, forse ricordo ai venturi di chi passò. Ma sopra il verde lucente dei faggi, sopra le conche dei pascoli e gli omeri [p. 366 modifica]ignudi dei colli ricompare uniforme ad ogni passo il pensiero dominante del poema, l’obliquo alato Picco Astore; e in giro alle alte sue tristi nudità ricompaiono, dovunque i sentieri cavalcano un dorso prominente, assise nei loro manti come gli amici di Job, le grandi montagne nubifere di Val di Rovese e di Val Posina. È in un selvaggio burrato dall’Astore che si cercano piangendo nel nascere le polle divise dell’Acqua Barbarena, la Fonte Alta, e tosto si appagano nel vaso di pietra onde corrono quindi, ridivise, a dolersi dolcemente ancora negli sparsi casali di Vena e nel giardino della signora che a villa Diedo, fra la conferenza di Carlino e il ballo, apprese con inquietudine pia il progetto di Jeanne, il pericolo, se Maironi la seguisse, d’una infezione mondana nella sua casta solitudine alpestre.

Presso la chiesa, sull’orlo di Val di Rovese, è un piccolo albergo non posto dalle Intelligenze delle montagne nè da quelle dell’aria, rustico al pian terreno dove il vino fermenta la domenica in canzoni e vocii, borghesemente lindo le scale sonore di abete, le stanze dall’impiantito di abete, che assiti di abete dividono, odorate di abete, dov’è gradevole, forse per la funebre somiglianza, sentirsi vivere. Capitano colà l’estate dal piano modesti clienti, visini anemici, stomacuzzi inerti, [p. 367 modifica]piccole borse di artisti e di poeti, uno dei quali ultimi, innamorato di Vena, dell’Acqua Barbarena e di Picco Astore, ci viene tutti gli anni e ha imposto a ciascun sasso, a ciascuna zolla dell’altipiano, nomi che nessuna carta topografica riproduce e che tuttavia trovano favore. Così si spiega lo sbalordimento di un ingegnere del Catasto, che recatosi all’Hôtel Astore in cerca di Carlino, una domenica, quindici giorni dopo l’arrivo dei Dessalle a Vena, si udì rispondere dalla cameriera che il signore non era in casa e che forse lo avrebbe trovato nel Covile del Cinghiale.

Il Covile del Cinghiale si cela tra gli anfratti di una costa selvosa a pochi passi dall’albergo e dal villino dei Faggi dove la signora Cerri, la confidente del candido maestro Bragozzo, stava con la sua famiglia da dodici giorni. Fra una lama scoperta di ripido prato e una profonda coppa, la “Pentola degli Stregoni„, onde sopra minute plebi di arbusti salgono abeti a glorificarsi presso le nuvole, tre macigni si porgono dal pendìo come tre scarnati menti di vecchioni. Nel mediano il poeta fantastico raffigurò un grugno di cinghiale. Dal destro e dal sinistro pendono i due capi della breve semicorona di faggi che forma il Covile. Due giovani abeti ne fiancheggiano la stretta bocca, altri due si disegnano nell’intervallo dei tronchi [p. 368 modifica]un finestrino che guarda, oltre la lama verde, una muraglia di tozzi faggi fogliuti e bassi.

Nell’ombra mobile del Covile, sforacchiata di sole, stavano a conversare, seduti, Carlino Dessalle, la signora Cerri, il maestro Bragozzo, ospite dei Cerri, Bassanelli sfuggito per due giorni alle cure del Governo, il poeta fantastico e il notaio di Vena, un savio, lento di gambe e di parola. I cinque bambini della signora Cerri facevano il chiasso nella “Pentola degli Stregoni„.

La signora lodava l’aria di Vena, così penetrata di spirito puro e anche ilare. Soggiunse timidamente, arrossendo nel dubbio di fare un discorso pretenzioso, alcune parole sulla purezza ilare di certi Santi, di certe anime elette che tuttavia s’incontrano qualche volta nel mondo. Allora il candido maestro la guardò con una faccia illuminata di ricordi sottintesi e le disse, pensando alla conversazione di villa Diedo, che nell’aria di Vena non c’era odore di quei tali pasticci.

“A pian!„ fece il notaio, esperto dei costumi venaschi. Non potè metter fuori la sua esperienza perchè Bassanelli saltò in mezzo a dire che l’odor di pasticcio a lui non dispiaceva e che invece l’aria di Vena era salubre perchè non vi era mai odore di abiti neri nè a coda nè senza coda; “nè de velade nè de veladoni!„ La signora Cerri osservò, [p. 369 modifica]approvando la chiusa del discorso Bassanelli e deplorando in cuor suo l’esordio, che già nel paese degli abiti neri una punta di putrido c’era sempre nell’aria. Allora Carlino ribattè che si doveva dire molto maturo invece di putrido e che questo odore di avanzata maturità non era un difetto ma una squisitezza perchè conteneva in sè l’idea della perfezione più che perfetta. Perciò gli faceva molto piacere di apprendere dal signor notaio che fra l’aria di Vena e l’aria della città, riguardo a certi odori, non ci fosse differenza. “A pian, a pian!„ esclamò il notaio. E subito la signora invocò il poeta. Che ne pensava il poeta?

Il poeta, che solo appariva tale nella zazzera e nella cravatta male composte, che si chiudeva, quando la gente pareva curarsi poco di lui, in accigliati silenzi e invece quando gli si mostrava deferente sfrenava subito la sua parola incomposta quanto la cravatta e la zazzera, cominciava a rodersi che nessuno lo introducesse ossequiosamente nella discussione; percui lodò molto in cuor suo la intelligenza superiore della signora Cerri e prese le parti di lei con tutto il fervore delle sue opinioni e del suo irritabile amor proprio, mescolati insieme, spumanti. Mediocre artista, si diceva piccolo a parole, si teneva grande nel cuore. Gli pareva esser male apprezzato nel paese degli abiti [p. 370 modifica]neri mentre negli alberi e nei macigni di Vena aveva trovato sempre, quando parlava a voce alta, nei suoi vagabondaggi solitari, un’attenzione piena di stima e di simpatia. Egli disse che realmente quest’odor di putrido l’aria cittadina lo aveva ma ch’era un odore gradito al suo naso e non per le considerazioni estetiche dell’amico Dessalle. Gli era gradito come l’annuncio ufficiale che tante cose odiose o fastidiose marcivano e che una salutare fase della evoluzione nuova era prossima; perchè il poeta era un trasformista fanatico e non sapeva, quasi, ordinarsi il pranzo senz’arringare il cameriere con l’evoluzione. Puzzava di putrido nel paese degli abiti neri l’accattonaggio universale, quello lurido delle strade, quello poco pulito delle anticamere, quello schifoso dei gabinetti. Il puzzo annunciava che gli attuali ordini economici, gli ordini amministrativi, gli ordini parlamentari erano marci e si sarebbero presto sfasciati. Puzzavano i partiti politici; il partito socialista con le sue camicie sporche plebee e i suoi capi unti di grasso borghese; il partito liberale con la sua rettorica ammuffita della bocca e la sua feccia scettica, egoista, del cuore (qui il notaio fece invano “a pian!„), il partito clericale con la sua religione guasta, mal conservata nell’aceto. Il triplice puzzo annunciava una prossima trasformazione pure di [p. 371 modifica]questi organismi. Puzzavano di putrido le classi ricche con i loro titoli morti, con i loro fumi di vanità, con le loro corruzioni eleganti del corpo e dello spirito. Il poeta aveva tartassato i socialisti ma in fondo parlava come un socialista e la conversazione passò dai malanni sociali alle medicine socialiste. Anche il buon maestro volle dire la sua: se tutte le note musicali volessero essere il la perchè il la comanda, addio musica! La signora batteva il chiodo della giustizia, dei torti che le sono pur fatti nella società del nostro tempo; e Carlino, dopo avere rimbeccato il poeta mettendo avanti che praticamente l’avvenire non esiste ma esiste soltanto una serie di presenti, sostenendo quindi che vera scienza della vita è il godimento e la interpretazione ottimista del presente, uscì a dire che in fin de’ conti esistono infiniti concetti individuali della giustizia, ma proprio la giustizia non esiste. “A pian!„ fece il giureconsulto. Era destino ch’egli non potesse mai passare oltre il suo consueto esordio. Jeanne si affacciò all’entrata del Covile con Maironi.

La signora Cerri arrossì. Ella non sapeva che Maironi fosse a Vena. Non vedendolo comparire aveva sperato e osservato Jeanne. Jeanne assisteva, ogni domenica, alla messa parrocchiale e vi teneva un’attitudine perfetta. Veniva quasi tutti i [p. 372 modifica]giorni da lei, le mostrava tale simpatia da potersi dire affezione, ne ricercava la confidenza, si era amicata i bambini, s’intratteneva volentieri col signor Cerri di agricoltura e di politica, si compiaceva visibilmente di un ambiente nuovo per lei, semplice nella larghezza degli agi, gaio dentro le frontiere severamente custodite della morale e dell’ortodossia cattolica, cristiano e moderno. La giovine signora non intendeva quanto potesse ella stessa sull’animo di Jeanne Dessalle con il suo alto candore rilucente nella dolcezza dell’aspetto, con la sua religiosità penetrante in tutti gli atti della vita, pura di piccinerie ascetiche e di piccinerie morali. Era lieta e quasi sorpresa della serietà, delle buone inclinazioni, dei sentimenti elevati che veniva scoprendo in lei. Non le pareva possibile, nella sua rettitudine, nella sua inesperienza delle cose umane, che una persona impigliata in relazioni colpevoli mostrasse tanta bontà; e fantasticava di un pentimento dell’amica, di una rottura già successa. Perciò quando vide Maironi alle spalle di Jeanne non potè nascondere il proprio turbamento doloroso.

Jeanne aveva negli occhi quella luce indicibile che la presenza dell’amato vi metteva sempre.

“Certo„, diss’ella, prima di mettere il piede sull’entrata del Covile, “certo che la giustizia è un’opinione! Chi è l’avversario di mio fratello?„ [p. 373 modifica]Io„ rispose la signora Cerri con voce fredda di celato rimprovero. Jeanne non l’aveva veduta e la intese sino al fondo. Appena scambiati i saluti, si dolse di Carlino che non l’avesse avvertita prima di uscire, si dolse di non aver saputo dove raggiungere la comitiva e vantò la propria intuizione. Al fremente Bassanelli sfuggí un ironico “famosa!„. Carlino, seccato della parte di distratto affibbiatagli dalla sorella per coprire l’ottenuto suo intento di restar sola con Maironi, mise il broncio. La Cerri si alzò, ricordò al maestro ch’era vicina l’ora della lezione alle bambine e prese commiato. Il buon Bragozzo, scandolezzato dalle tesi di Carlino, dalla simpatia di Bassanelli per i pasticci, dal discorso del poeta sui clericali e dalla comparsa di Piero in quella compagnia, si sfogò, appena passata la Pentola degli Stregoni, con la signora e le confessò che a lui quel così detto Covile del Cinghiale era parso un bel porcile: “El staloto del mas’cio„.

Intanto Jeanne cercava di riaccendere la discussione. Bassanelli dichiarò ruvidamente che se altri voleva la giustizia non assoluta, a lui bastavano i carabinieri assoluti e che intendeva ritornare all’albergo col notaio per bere un’assoluta porcheria qualsiasi che gli facesse digerire la metafisica. Zoppicò giù per il sentiero con tanta sdegnosa fretta che il povero notaio, non potendo tenergli dietro [p. 374 modifica]e volendo pure comunicargli una sua riflessione, frutto prezioso del silenzio, lo richiamò.

“A pian! La diga! A pian! Per quela signora xe relativi anca i marii.„ E spruzzate sull’arguzia due risate grosse e corte, descrisse con un cipiglio severissimo lo scandalo dato da “quella signora„ che all’arrivo di Maironi, la sera precedente, si era tradita per modo davanti alla gente dell’albergo da imbarazzare visibilmente il suo stesso amante. “Che amante!„ fece Bassanelli. L’altro si scusò. Aveva detto quello che tutti dicevano.

Maironi non desiderando, nel suo stato d’animo, nè parlare nè udir parlare accademicamente di giustizia quasi per passatempo, lasciò in asso il poeta, che combatteva i fratelli Dessalle guardando spesso lui come uno sperato sostegno, e uscì a considerare la Pentola. Jeanne lo raggiunse.

“Ripigliamo il nostro discorso„ diss’ella sottovoce, movendo un passo di tacito invito ad allontanarsi di lì. “Se ciascuno di noi andasse a ricercare le origini del proprio avere, non crede che si troverebbe tutti della roba mal venuta? Scusi, non vi sarebbe qui un po’ di romanticismo? Può far tanto più bene Lei, colla Sua ricchezza, che l’Ospitale Maggiore di Milano!„

Invece di rispondere, Piero la interrogò fremente:

[p. 375 modifica]Come si può dire che la giustizia è un’opinione?„

“Eh, sicuro!„ diss’ella, pure concitata. “Ed è proprio questo il caso! A Lei pare giustizia spogliarsi del Suo contro una sentenza di giudici e a me pare giustizia di non sostituirmi ai giudici. Opinione la Sua, opinione la mia, opinione quella dei giudici!„

Appena detto questo si raumiliò al solito, chiese perdono con tenerezza affannata.

“Non so pensarla povero„, diss’ella, “non so pensare che Le manchino gli agi cui è abituato, sarei contenta di vivere miserabilmente io in uno di questi abituri purchè a Lei non mancasse la pienezza della vita e il mezzo di essere generoso secondo il Suo cuore e la Sua mente!„

Volle sapere come proprio si fosse espresso l’avvocato. Piero le rispose freddo, col tono di chi non è più disposto a discutere. Secondo l’avvocato, l’Ospitale Maggiore aveva perduta la lite contro i Maironi per un puro vizio di forma nel testamento di un marchese Reyna, cugino di Alessandro Maironi, bisavolo di Piero.

“Nessun socialista„, diss’ella, piano, “farebbe quello che vuol fare Lei e come socialista...„.

Non si arrischiò a compiere la frase, a dire che un socialista avrebbe ragione, come tale, di non agire secondo un religioso rispetto dell’idea di pro[p. 376 modifica]prietà, del diritto di testare, che avrebbe ragione di non favorire Opere pie, istituzioni che attenuando i guai prodotti da un sistema economico ingiusto, lo tengono in vita.

“Io non sono un socialista come gli altri„, disse Piero. “Certe teorie non comincio ad applicarle a mio beneficio.„

Presso al fondo del valloncello che va da settentrione a mezzodì, fra il Covile del Cinghiale e la chiesa, sull’orlo di un pendio breve ma ripidissimo, Jeanne si fermò.

“Mi dia la mano!„

Afferrò la mano concessa, sorrise, la strinse, discese, sussurrò: “Come sei forte!„.

Era la prima volta che ritornava al tu, dopo l’arrivo di Piero. All’ultimo passo, toccando il piano, si abbandonò col petto sul dolce sostegno, avviluppò la persona cara con l’aura odorosa e tepida della propria.

Aveva tanto tremato ch’egli mancasse alla promessa! Gioiva tanto della sua presenza, sperava tanto! Dirimpetto a loro, sul ciglio dell’alta costa, l’albergo biancheggiava fra gli abeti. Piero, pallido e silenzioso, prendeva già quella via. “No!„ diss’ella con una voce, con una boccuccia di bimba viziata; e accennò del capo al sentiero che risale il valloncello verso mezzodì. “All’albergo c’è Bassanelli, c’è tanta gente! Lei mi deve [p. 377 modifica]dire cosa farà poi che avrà ceduto tutto il Suo.„ E non potè a meno di trasalire ancora all’idea di questa follia.

“Bene„ disse Piero, risoluto a un discorso definitivo. “Andiamo. Lei non ha ombrello?„

Un velo era sceso sullo smeraldo dei prati, le ombre degli alberi si erano sciolte nel chiaror diffuso del sole nascosto, il nebbione fumato su dalle valli, si riversava lento per gli alti grembi di Vena, per le vette delle selve, affiochiva nei pascoli i suoni sparsi dei campani, fasciava le pendici nereggianti di Picco Astore. A Jeanne pareva che un bianco mantello umido venisse avvolgendo silenziosamente lei e Piero, sul prato soffice, dentro le sue lane flosce, venisse dividendoli pian piano dal mondo delle cure umane, dal passato, dall’avvenire, spirando loro il dolce senso di essere anime d’un altro pianeta. Sentì che giungeva un’ora suprema, che erano in giuoco non tanto la felicità propria e le proprie sorti, che importavano mai?, quanto le sorti, la felicità dell’amato, illuso da funesti sogni. Gli passò timidamente una mano sotto il braccio, mormorò: “Ti dispiace?„. E benchè il “no„ di lui sonasse freddo, gli serrò forte sul braccio la bella persona.

“Caro!„ diss’ella.

In quel momento Piero si diceva: “Come questa donna non comprende!„. La resistenza dura di lei [p. 378 modifica]alle sue idee, il tenace scetticismo, quelle fredde ragioni opposte al suo divisamento generoso e che in fondo, pur non volendolo confessare a se stesso, trovava giuste, almeno in parte; sopra tutto quel non avergli detto una sola parola di ammirazione, finivano di staccarlo da lei, lo rendevano quasi sdegnoso, impaziente dei dolci atti e dei dolci detti.

“Intanto„ diss’egli ex abrupto, per troncare le dolcezze, “non cederò tutto il mio. Conserverò una piccola proprietà Maironi, antica, non venuta da casa Reyna, e conserverò la casa di Oria che mia madre ha ereditato da mio zio Ribera. Sarà la povertà, ma non la miseria. Appena stipulata la cessione andrò in Francia a studiare e forse anche a lavorare con le mie mani. Sarà il primo passo per servire la mia opinione della giustizia, per diventare, in tutto, l’uomo che l’anima grande, unica, di mia madre deve avere desiderato in me. Perchè oramai la mia stella è d’incarnare l’ideale di mia madre. Mia madre sarebbe felice di vedermi abbandonare una classe sociale dove non si vuol saperne della giustizia eterna per non sentirsene obbligati a sacrifici duri, oppure se ne fa un Dio personale col quale non è poi tanto difficile di accomodare i conti; una classe dove non si vuole che godere giorno per giorno, non si vuole che...„

Non compiè la frase. Alle prime parole crude [p. 379 modifica]Jeanne aveva lasciato il suo braccio; alle ultime, sentendosi mancare, smorta socchiuse gli occhi, cercava con mano incerta, vagante, di aggrapparsi a lui per non cadere.

Atterrito, egli le cinse la vita, si guardò attorno, non vide nessuno, il nebbione era tanto denso! La sostenne, la incuorò e la rimproverò insieme, affannato. Ella si provava di respingere il suo braccio, mormorava quasi inintelligibilmente: “No, no, mi lasci, non son degna, non son degna...„. Cingendole sempre la vita, Piero si mosse pian piano per ritornare all’albergo. La povera Jeanne aveva orrore dell’albergo. “No, no„! Piero voleva farla sedere un momento, almeno, sul prato. “No, no, mi conduca alla fontana, mi conduca alla fontana!„ Pareva rianimarsi, la voce si rialzava e si rinfrancava. Piero non sapeva dove questa fontana fosse e Jeanne non riusciva a spiegarsi.

Si provò di camminare, di guidarlo. Questo le riusciva meno difficile che il parlare. Si avviò sorretta da lui, vacillando, ansando, sostando a ogni passo. Avrebbe voluto anche parlare, ma non poteva, e allora lo guardava in viso con il dolore di questa impotenza, con uno sguardo indimenticabile. Ebbe anche, nel far sosta per lo sfinimento mortale, un sorriso infinitamente triste. Una volta le parve udir voci che le venissero incontro per [p. 380 modifica]la nebbia, si tolse dal sentiero, sgomentata, con uno sforzo. Le voci si dileguarono. “Vuole aspettar un poco?„ diss’ella, affranta dallo sgomento e dallo sforzo. Passarono certi casolari e piegarono a destra in un picciol cavo ombreggiato di noci dove convergono altri sentieri e chiama con fioca dolente voce una sottile polla dell’Acqua Barbarena, cascando nella vasca disposta ivi per le mandre. Piero fece sedere Jeanne sull’orlo della vasca. Non aveva tazza, raccolse l’acqua della polla con le mani. Ella bevve, impresse la bocca nella commessura delle palme, ebbe un singhiozzo arido e alla domanda di lui se desiderasse bere ancora scosse il capo senza levarlo.

Egli disgiunse le mani adagio adagio, le ne sfiorò il viso pietosamente ed ella subito se lo coperse con le proprie. Poi cavò il fazzoletto e glielo porse tenendosi ancora l’altra mano sugli occhi, pregò di bagnarlo, se ne deterse le ciglia, tacque col viso basso e le mani giunte in grembo. Egli cercò una parola pia, le disse accorato che non aveva creduto di farle tanto male.

“Mi permette„, mormorò Jeanne, “di seguirla dove andrà, senza mai farmi vedere da Lei?„

Egli non rispose ed ella lo interrogò da capo con l’oscuro fuoco dei grandi occhi aridi.

“Jeanne! Come può pensare a questo se mi disapprova?„ [p. 381 modifica]

Ella gli sarebbe caduta ai piedi se Piero non l’avesse impedito a forza. Gli prese e raccolse i polsi, gli parlò affannosa, porgendogli il viso, affissandosi in lui con la espressione di un morente che cerchi negli occhi del medico la speranza:

“No, no, Dio, Dio mio, no, Lei non sa, Lei non sa! Io ho nella mente delle oscurità disgraziate, io La contraddico anche qualche volta per una specie di spirito maligno che mi prende, che mi fa parlare per la mia sventura, ma l’ammiro tanto tanto tanto, onoro tanto in Lei quella fede in un ideale che vorrei pur avere e non posso, sento quanto è bello il Suo proposito, quanto è grande, darei tutto il mio perchè servisse ai Suoi studi, al trionfo delle Sue idee, di ciò ch’Ella chiama la giustizia assoluta.

Non vi è sacrificio che non farei! Non merito proprio, creda creda, ch’Ella mi dica quelle cose terribili, non tengo alla ricchezza, non tengo ai godimenti, non tengo al mio ambiente, lo domandi alla signora Cerri, non tengo neppure all’eleganza se non per Lei, perchè anche se Lei non mi vede, voglio sempre figurarmi di esserle presente. Se Lei me lo permette, io lascio tutto. Cedo tutto a mio fratello e vengo a servire Lei se vuole; se non vuole vengo a starle vicino, vivrò di lavoro e forse Lei qualchevolta avrà pietà di me!„

Ella s’interruppe, lasciò le mani di Piero; i belli occhi [p. 382 modifica]parlanti si velarono di pianto. Maironi ebbe il senso di un’anima che non avesse mai conosciuto bene, resistente per la sua potenza di amore a una profonda infezione di scetticismo, lampeggiante dall’interno delle sue nuvole una luce purissima.

“In principio„, riprese Jeanne, “l’idea di lasciare mio fratello non mi avrebbe potuto venir in mente. Lei, per le discordanze nostre, mi ha amato sempre meno e io l’ho amato sempre più, perchè io non avrei mai voluto ch’Ella diventasse come me, avrei voluto invece diventar io come Lei!„

Tacque e dopo brevi momenti di silenzio alzò gli occhi lagrimosi aspettando una risposta. Piero teneva i suoi fissi nel vaporar lento della nebbia, nelle foglie dei noci, gravi di umidore. La tristezza delle cose pareva conscia di quel silenzio doloroso. “Dio, Dio!„ gemette Jeanne, sotto voce. “Oggi„, soggiunse dopo un’altra pausa, “se quest’acqua fosse veleno non Le chiederei se la dovrei bere„. Piero la guardò, attonito. Appena ella ebbe detto amaramente, come parlando, a sè stessa “neppure si ricorda!„ gli venne in mente Praglia, il bicchier d’acqua sparso.

“Sì„, diss’egli, commosso. “Mi ricordo. Neppure oggi Le direi di bere„.

Ella sospirò: “Per pietà, forse„. [p. 383 modifica]"Oh no!„

Jeanne ebbe un sussulto di speranza, ma poi ripetè malinconicamente: “Sì, sì, per pietà„.

Parole calde parvero salire alle labbra di lui e arrestarsi. Non ne uscirono che queste: “Non lo dica!„.

Jeanne si voltò sul fianco e con la punta dell’indice tracciò sull’acqua la parola: pietà.

“Lei„ disse con una tranquillità nuova, guardando lo specchio dell’acqua ricomposta “ha perduto la poesia dell’amore, ricadrà nelle tentazioni di prima, si cercherà delle amanti o piuttosto se ne compererà.„

“Non ho perduto la poesia dell’amore.„

Ricominciò un silenzio eterno.

Piero guardò l’orologio, osservò sommessamente ch’erano quasi le tre e mezzo. Aveva ordinato che la vettura fosse pronta per le quattro, volendo prendere a Villascura il treno delle sei. Jeanne non lo sapeva, trasalì, ma si chetò subito. Però non si mosse e siccome egli pareva stare in attesa, disse:

“Vada, io resto qui„.

A lui quella tranquillità parve sospetta. Aveva udito parlare di precipizi vicini, vaghe apprensioni gli salirono in cuore. Insistette perchè Jeanne si alzasse, perchè scendesse all’albergo. Jeanne ripeteva: “Vada! vada!„ senza muoversi. [p. 384 modifica]“Ma non posso„, diss’egli “lasciarla così!„ E soggiunse teneramente: “Vieni, vieni, forse un giorno...„.

“Forse un giorno...?„ diss’ella, in un lampo di dolcezza e di amore.

“Forse un giorno ci sarà fra noi quella concordia di anime che può giustificare una unione stretta.„

Esprimeva egli il proprio intimo pensiero oppure lo avevano quelle apprensioni vaghe tratto più in là? Jeanne tornò ad oscurarsi, mormorò scuotendo incredula il capo:

“Pietà„.

Egli si guardò attorno, si chinò, le pose sui capelli un bacio e sussurrò:

“No, cara, speranza„.

Ella piegò la testa per prendere quanto poteva del bacio, un fugace lume di beatitudine le si diffuse sul viso.

“Se è vero„, disse, “che lo speri, resta fino a domani. Altrimenti penserò che non è vero„.

Egli aveva respirato i soffici, morbidi, fragranti capelli, la dolce offerta, e gliene tremava il cuore. Rispose con voce malferma:

“Resterò„.

Jeanne si alzò in piedi, fece “grazie!„, mise un lungo sospiro, guardò Piero come talora [p. 385 modifica]una madre guarda scherzando il suo bambino, con un tenero, gioioso viso infantile; perchè a lui piaceva, in passato, di farsi guardare da lei così. Gli piaceva ancora! Ella rise un breve sommesso riso, un riso inconsciamente voluttuoso che pareva dire: “Riconosco la fiamma degli occhi tuoi, un giorno a me sgradita, adesso mi dai un bacio, lo so, e non sui capelli„. Infatti, lentamente lentamente, il viso del giovane si accostò al suo che lentamente lentamente si disponeva, si porgeva grave all’incontro.

Allora le due anime salite sulle labbra si dissero tale una cosa che poi, quando le labbra si disgiunsero, gli occhi non sostennero di guardarsi. Altre volte Jeanne e Piero si erano incontrati senza parole in quel pensiero segreto ma ostilmente. Ora non fu così. Ora la donna sentiva che vi era un ripugnante modo di trattenere il suo amore per sempre; l’uomo sentiva che vi era un dolce modo d’incatenarsi per sempre e che lei non era più tanto ferma nella sua resistenza. Ambedue, attratti e respinti, trepidavano.

Intanto si era levato un vento molesto che soffiava loro la nebbia in viso. Campani di mucche scendenti all’abbeveratoio suonaron vicino. Jeanne e Piero si avviarono verso Rio Freddo, la prima breve passeggiata di tutti i visitatori di Vena, lei [p. 386 modifica]camminando avanti, in silenzio, col senso dello sguardo fisso di lui, volgendosi con un sorriso quando lo sentiva tanto forte da soffrirne. Poco a poco la nebbia si aperse, apparve a destra, nero, imminente, il tragico Picco Astore, apparvero in un chiarore di sole pallido pendenti grembi e molli dorsi di pascoli, alture nere gremite di abeti, profili grandi delle creste di Val Posina. E presto intorno ai due silenziosi ruppe il sereno da ogni parte, l’erbe imperlate brillarono, lo smeraldo dei pascoli si ravvivò, le cervici calve di Picco Astore diventaron fulve, gli umidi aromi della montagna odorarono. Jeanne sedette sur un muricciuolo diroccato che troncava il sentiero dove si gitta dal prato in una macchia. Pallida, spossata dall’ultima ripida salita, non poteva parlare, sorrideva guardando lui. Lì presso era un cespuglio di nascenti faggi misti ad abeti. Jeanne sospirò, guardandolo: “Che piacere vivere uniti qui, sempre, sempre, dimenticare il mondo basso! Ah! che gioia, che gioia!„ Attese invano una parola di Piero, mormorò ancora, con gli occhi bassi: “Non dici niente?„

Piero non parlò. Neppure parve udirla. Pareva guardasse l’ombra del proprio capo sull’erba. Ella si alzò, si fece aiutare a scavalcare il muricciuolo, si mise risolutamente, seguita da lui, nella macchia. Pochi passi per intricati rami, su pietroni [p. 387 modifica]affondati nei muschi, sconnessi dalle radici degli abeti e dei rododendri, ed ecco, a destra e a sinistra, l’orribile Profondo, la mostruosa cintura di scogli, lunata e rientrante sotto le creste coronate di abeti, come una colossale onda che frangendo si rovescia all’indietro; ecco Rio Freddo, il pauroso confine del paradiso verde di Vena, la valle dell’Ombra della Morte. Jeanne mise il piede sopra un lastrone sporgente fra gli abissi. Piero l’afferrò alla vita ed ella si rovesciò indietro alle sue braccia, chiudendo gli occhi. La strinse a sè, la coperse, tacendo sempre, di carezze così violente, che Jeanne, atterrita, supplicò:

“No, no, no!„

Allora il giovine, di botto, lottando con sè stesso, ristette; ella gli sgusciò dalle braccia e scavalcato il muricciuolo, saltò dalla macchia sul prato aperto.

Qualcuno saliva verso di lei e le domandò da lontano del “signor conte„. Era il vetturale piantato in asso da Piero. Il signor conte, partiva o non partiva? Perchè lui doveva partire a ogni modo. Piero cercò inutilmente di persuaderlo a restare fino all’indomani mattina. Quegli, regolato il suo conto, se ne andò. Maironi guardò Jeanne.

“Dovevo partire stasera?„ diss’egli.

Ella chinò gli occhi e non rispose.

Discesero in silenzio, ella seria, egli triste. Ripassando [p. 388 modifica]presso la fontana dei noci Jeanne lo guardò alla sfuggita come per dire: “Il principio è stato qui„. Poi non lo guardò più. Raggiunto il posto dove, per andare al Covile del Cinghiale, conveniva prendere a sinistra, esitò un momento. Prese invece il sentiero che sale verso il villino dei Faggi e di là conduce all’albergo. Non una sola parola fu scambiata fra loro fin presso al villino. Allora Piero domandò alla sua compagna se fosse proprio in collera con lui. “Non lo so„, diss’ella, e lo guardò teneramente, dubitando di averlo offeso. Lo vide così turbato che si smentì subito, affannosamente:

“No no, caro, non sono in collera, ti amo troppo!„

Nel villino si faceva musica. Jeanne si fermò al cancello, ascoltando. Era un pezzo per violino e piano. L’arco, impugnato da una mano potente, strappava dallo strumento, alternandole a un fine cinguettio di sussurri, apostrofi grandiose che parvero a Jeanne di tragico rimprovero e di scongiuro. Un attimo le bastò per pensare che la signora Cerri, se sapesse, le parlerebbe così e che se lei, Jeanne, avesse avuto la sorte di suggere col latte la fede religiosa e la rigidezza morale come la signora Cerri, non avrebbe meritato, nè sarebbe per meritare, un tale rimprovero. I bambini giuocavano in giardino, la videro, corsero a [p. 389 modifica]lei battendo le mani, gridandole di entrare. Ah, entrare lì, in quel momento! Ella fe’ loro cenno che tacessero e si allontanò con Piero mentre il violino riattaccava l’apostrofe ardente che parve adesso quel che forse immaginò l’autore del pezzo, il vecchio Tartini, un demoniaco, amaro grido di trionfo.