Prose campestri/Rura mihi et rigui placeant in vallibus amnes

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Pane egeo Me vero primum dulces ante omnia Musae
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Rura mihi et rigui placeant in vallibus amnes,
Flumina amem, sylvasque inglorius.

Virgilio. Georg. lib. ii


Gli uomini di un valore in qualche disciplina non ordinario, ai quali la debita giustizia da’ contemporanei si renda, son così pochi, che io non so come alcuni, benchè sensati, si lascino riscaldar tanto all’amor della gloria, e tanto s’affannino per ottenerne almen qualche raggio. È giusta la posterità. Infelice consolazione! Che gioveranno a te quelle lodi, delle quali non potrai avere alcun senso? Puoi gustare in vita anticipatamente quella immortalità del nome, che sai dover conseguir dopo morte. Ma poichè l’idea d’un bene tanto ci può dilettar veramente, quanto crediam che da quel bene solleticati verremo, che altro dee dirsi, senonchè questo desiderio d’esistere nelle altrui menti soltanto, questa sete [p. 59 modifica]d’una eredità, che raccogliere non possiamo, è uno splendido ed utile errore, per cui le fatiche de’ trapassati contribuiscono ai piaceri, e alle comodità de’ viventi?

Funesta anche in proposito della gloria è la scoperta del vero. Lo scrittor giovine, e d’esperienza privo, sembra credersi egli solo infiammato dall’amor della lode: ma s’egli desidera l’applauso degli altri, la vanità degli altri non è men pronta a negarglielo. Parrebbe che il piacere, ch’egli desta ne’ suoi lettori, dovesse consolar questi del dolore di commendarlo: ma questi lettori non si pregiano di vilipender pubblicamente quell’opera, che formò le delizie secrete della lor solitudine?

Felice nel suo inganno quel giovinetto non sa, che con tre spezie di persone ha egli a fare particolarmente: con gli artisti, i quali lo invidiano; con gli uomini, che si piccan d’ingegno, ma che inabili a mostrarlo scrivendo, quelli vorrebbero tirar giù, che scrivendo s’innalzano sopra loro; e con [p. 60 modifica]gl’ignoranti, di cui non avrebbe mai creduto sì grande il numero, e nel cui numero colui possiam mettere ancora, il quale, perchè conosce un’arte, ch’egli coltiva, crede poter giudicare di quelle, che non intende. Rimane una quarta spezie, ma scarsissima, d’uomini non men giusti che intelligenti: tra’ quali se havvi alcuno, che trovando nell’eccellente opera d’un contemporaneo una macchia, desiderasse di cuore, che tal macchia sparisse, ah questo è l’uomo, ch’io vorrei per amico!

Parlo de’ contemporanei, tra’ quali tu vivi. Perchè gli stranieri ti avranno forse in gran pregio, ed alcuno sotto un diverso cielo bacerà forse quella pagina, che da’ tuoi concittadini non curasi punto. Ma quest’approvazione rimota, di cui non sai nulla, è per te affatto sterile e vana, formando i lontani una posterità di luogo, ch’equivale a quella di tempo. E così non dico nè pure, che nella sua patria ed in vita non ottenga qualche uomo la ricompensa [p. 61 modifica]da lui meritata; ma rarissimo è il caso, e quest’uomo non sarà mai tanto grande, che più ancora che grande, fortunato non s’abbia a dirlo.

Forse non sono così pochi coloro, che godono in vecchiezza di molta fama: sia che questa età, veneranda e debole insieme, disarmi alquanto l’invidia; sia che l’invidia si sforzi a un sentimento di giustizia, che già dee durar poco, o invece s’abbandoni a uno studio di crudeltà, quasi per rendere all’uomo più felice la vita allor ch’egli è per abbandonarla. Comunque sia (lasciando che la morte non aspetta sempre una fama sì tarda) non veggio il gran bene, che da questa derivar possa. Certo non par questa da desiderarsi, se non quanto più cara e più bella ci rende la vita: quindi l’uom saggio, lungi dal proporsela come fine ultimo delle azioni, la reputa un mezzo piuttosto; e fine considera que’ comodi e piaceri che ne risultano, e più ancora l’opportunità di promovere il [p. 62 modifica]bene altrui, d’esser utile agli amici, alla patria, alla società. Che giova dunque l’acquistare allora questo strumento, che non abbiam più forza d’usarlo, e che siam per discendere, attori stanchi ed inabili, dalla scena del Mondo?

Nè io già intesi parlare di certe frivole celebrità passeggiere, che un’arte ben nota rapisce assai facilmente, ma delle quali è gran maraviglia, come l’uomo appagar si possa. Quanti non si credon famosi, perchè lodati vengono dagli amici, o perchè nel posto, in cui sono, godono di quegli onori, che, offerti a tutti, non adornano alcuno? Perchè i giornalisti mettono in cielo un lor libro? Perchè nelle radunanze accademiche riscuotono applausi alla buona creanza, o al cattivo gusto dovuti degli ascoltanti? Perchè piacciono le lor commedie a una gente, che tutto l’anno batte le mani a quanto immaginar si può di più assurdo, e scrivere di più barbaro? Oltrechè, se di nobile stirpe sono, non s’accorgono miserabili quanto spesso [p. 63 modifica]nello scrittore corteggiato venga il signore, non solamente dai parassiti, ma talvolta eziandio da personaggi gravi, che adoperan così per bene dell’arti; tentando di fare almeno un buon Mecenate di colui, che non ha saputo farsi egli autor buono. Piccole celebrità, dalle anime piccole solo desiderate, celebrità oscure, e spesso riconosciute per tali col tempo anche da chi sen compiacque, operando al fin l’esperienza ciò che la ragione non seppe, ma disprezzate subito dal sapiente; il qual considera quella solo, che qualche cosa di grande e di raro lo costituisce agli occhi della nazione: ma perchè questa è incertissima, perchè quel posto, ch’egli occupar dovrebbe in vita, e con la persona, non sarà probabilmente occupato, per così dire, che dalla sua Ombra; nè pur dietro tal fama il sapiente s’affanna nel tempo stesso, che bella la lascia essere, come convenir può della beltà d’una donna, di cui detestar dee la bizzarria, l’incostanza, e la perversità. [p. 64 modifica] Ma si può egli, senza il desiderio di questa fama, coltivar con piacere l’arti e le scienze? Ben mostrerebbe aver di queste un assai debole e falso concetto chi ne dubitasse. Non sono forse abbastanza belle in sè stesse, onde amarle per quel diletto, che si trae sempre grandissimo dalla lor compagnia? Non tornerà piacevolissima la contemplazione di quelle verità, di cui si compongon le scienze, che diconsi matematiche? Non la magnificenza e ricchezza dell’astronomia, e la considerazion di quell’ordine, che regna nell’Universo? Ed il fisico, il chimico, il naturalista non si trova sempre in mezzo ad oggetti d’altissima, e giocondissima maraviglia? Che se interrogheremo coloro, che si danno alle sottilità della metafisica, o alle ricerche storiche, ed erudite; risponderanno, che anche in quelle probabilità, in quelle verisimiglianze s’affaccia a lor sempre una singolare bellezza. E quelle arti, che si dicono belle? E quelle lettere che amene si [p. 65 modifica]chiamano? Si dicono, si chiaman tali per nulla? Quanto non è grande, anche senza pensare ai lettori, il piacer di versare, per dir così, la tua anima sopra una carta, e dar visibilità e corpo a’ tuoi sentimenti? E lasciando ancora l’esercizio dell’arte, esercizio delizioso sempre, se dell’arte innamorato sei veramente, è egli facile trovar nel gran Mondo un diletto da contrapporre a quello d’una bella e commovente lettura? Chi è che s’abbia il coraggio di dirmi: Ascolta me piuttosto che Platone ed Omero, piuttosto che Tullio ed Orazio? Lascia di udire i lamenti d’Edipo e di Filottete, e vieni ai nostri teatri? Vieni a ridere nelle adunanze nostre, e lascia di piangere con Didone e con la madre d’Eurialo, di rammaricarti con Bradamante, di sospirar con Erminia? Prendi questa nuova raccolta per nozze, e deponi que’ sonetti e quelle canzoni del tuo [p. 66 modifica]Petrarca? Non parlo di quel conversare con tanti personaggi illustri dell’antichità, filosofi, capitani, legislatori, oratori, ed artisti d’ogni maniera, ne’ più bei tempi della Grecia, e di Roma, vivendo in certo modo ne’ secoli scorsi, e così dilatando prodigiosamente la nostra esistenza, delle cui angustie a torto si lagna chi non usa, come i bruti, che del presente.

Quindi aveva ragion di scrivere il gran Tullio appunto, che nelle cose stesse, che s’imparano e si conoscono, trovansi gli allettamenti, onde a impararle e a conoscerle noi siam mossi1. Aggiungasi il fine d’ornar sè medesimi, d’esercitar lo spirito e il cuore, e di perfezionare, quanto è in noi, la nostra natura. È forse picciola soddisfazione quella d’un uomo, che sentendosi da un libro sublime, o patetico [p. 67 modifica]fortemente commosso, s’accorge d’un’anima in sè stesso per nulla volgare, e d’un senso particolarmente squisito? D’un uomo, che oltrepassa con le sue meditazioni quel segno, a cui la più parte nè giunge pure; che distingue i gradi infiniti della probabilità; che scopre rassomiglianze tra quelle cose, ove gli altri non veggon che diversità, e differenze tra quelle, ove agli altri non si presenta che rassomiglianza? Ed in faccia a questi beni, che sono in noi, che niuno ci può contendere, che è mai quello, che stassi nelle altrui, teste? Che è una lode, che spesso abbiam comune con persone spregevoli, o che da persone spregevoli ci vien data? Una lode, a cui non sappiam mai quanta fede prestar dobbiamo? Si dice che i Re non possono sapere il vero. I soli Re? Qual follia! Gli uomini tutti non fan che ingannarsi reciprocamente, e così necessariamente ad un tempo, che non sarebbe unione tra loro senza questo reciproco inganno. [p. 68 modifica] Ma per trar dagli studj tutto quel bene, di cui son capaci, confessiamo, ch’esser fatti dovrebbero altrimenti da quello, che in generale costumasi. Lo studio dell’uomo, dell’origine sua, del suo fine dovrebb’esser il più coltivato di tutti, ed è il meno.

Ut nemo in se se tentat descendere, nemo! Sarà forse dalla mineralogia, o dalla botanica, sarà stillandomi il cervello sopra una lapida, o sfibrando gli occhi per entro una pergamena, ch’io imparerò a frenare i desiderj e i timori, a perdonare gli altrui difetti, a non lasciarmi vincere all’ira? Litteræ nihil sanantes. Saprò come s’ami la patria, l’amico, la sposa, studiando come si nutra una pianta, si formi un metallo, si trasformi un insetto? Non faciunt bonos ista, sed doctos. Quel chimico tutto analizza, fuor che sè stesso. Ecco un geometra, che tutto misura, eccetto quelle cose, che più gli appartengono; eccetto il curvo ed il retto delle operazioni umane: un anatomico, che tutto studia nell’uomo, fuori [p. 69 modifica]che l’uomo. Ed al veder la cura, con cui va taluno spiando i costumi de’ più vili animaluzzi, non si direbbe ch’egli crede d’avere un giorno a conversare con loro?

Benchè io rispetti qualunque scienza, difficilmente m’indurrò a pensare, che l’uomo sia stato posto nel Mondo per numerar li 17325 occhi d’una farfalla. La cognizion religiosa e morale dell’onesto e del turpe, della storia dell’uman genere, e di que’ fatti, onde acquistano solidità le opinioni, e divien palpabile il vero, mi sembra d’uso frequente nella vita e costante, più che tutt’altro. La prudenza e la giustizia camminano per tutti i tempi ed in tutti i luoghi; ma solamente per caso altri si dà alla fisiologia, o all’idrostatica; ed ove son puramente volontarie le speculazioni di questa spezie, necessario è lo star con noi stessi, e con gli altri, necessario il conoscer le nostre relazioni con gli altri, e con chi ci creò, e i doveri, che imperiosi sorgon da quelle. [p. 70 modifica] Ma guardiamci dal far tali studj, come fatti vengono dalla più parte. Il chimico, il geometra potrebbe cessare d’esser uomo, e restar grande nell’arte sua. Ma non è così di quelle facoltà, le quali, se dallo spirito non cadon nel cuore, fanno più torto, che onore, a quello spirito, in cui rimangono. Quanti non insegnano la virtù, che sarebbero desolati d’averla imparata? guariscono tutti dalle false opinioni, fuorchè sè stessi? studiano nell’umana natura, giacchè bisogna pur disputarne, e mostrar d’intenderla: ma desideran veramente di conoscer sè medesimi? io credo teman piuttosto. Proponete ad un di costoro o d’esporre que’ paradossi, che dal Mondo verranno applauditi senza andarne persuaso egli, o di recare in mezzo quelle opinioni, di cui è intimamente convinto, con pericolo che il Mondo non gli batta le mani, egli sceglie il primo: non è il vero che gli sta a cuore, è la fortuna del libro suo.

Chi è colui? Un erudito. Non uscì dalla [p. 71 modifica]bocca d’un celebre antico alcun savio detto, ch’egli nol ripeta; non fu scritto un luminoso ammaestramento, che nol ricordi; non ricorda un’eroica azione, che non l’esalti: viene il tempo o di pronunziar qualche savio detto, o di dare qualche buon consiglio, o di fare qualche azion buona: egli rimane al di sotto de’ più ignoranti. Ma l’ignoranza stessa non è men brutta? Che giova tanta investigazione, se di quello, che andiam raccogliendo su questo o quel libro, non ci nutriam veramente, non l’assilliamo, nol convertiamo in succo e sangue, e nella propria nostra sostanza? Che è questa scienza posticcia, che sta su l’animo, come sul corpo la veste?

Un altro fa le delizie sue de’ poeti. Delizie infelici, se non passa più là della frase e del numero, se da quella viva pittura di costumi e d’affetti, di vizio e virtù, non impara a farsi più avveduto e più saggio. Che direm di quelli, che tanto affaticansi, a fine d’imparar molte lingue? [p. 72 modifica]Quasi fosse bello il poter dire in molte favelle ciò, che non merita forse d’esser detto in niuna. E quelli che si danno in vecchiezza allo studio d’una lingua nuova? Non è di questo ch’io loderò l’illustre Catone. Alla lingua Araba diede opera nell’età d’anni ottanta il Cardinal Olivieri: per morire scolaro, dice il Boccalini. E il sudare intorno alla propria lingua, quando non sei più per usarne? L’Algarotti poco prima della sua morte, e dopo stampate più volte l’opere sue, ringrazia la sua tosse, che l’ha condotto nel bel paese di Toscana, ove potrà attignere al fonte d’ogni grazia e d’ogni bel parlare: quella tosse, che condotto l’ha nel sepolcro. Ne’ suoi ultimi anni interrogato Francesco Zanotti a che s’applicasse, rispose alla propria lingua, che non mi pare ancora di saper bene. Ma la credea egli necessaria per l’altro Mondo?

Un altro regola i suoi studj in modo, da poter fare spicco ne’ circoli, e abbagliare almeno i semidotti e le dame. Egli [p. 73 modifica]legge Platone, non vitæ ornandæ, sed linguæ orationisque comendæ gratia; nec ut modestior fiat, sed lepidior. Cerca particolarmente di quello arricchire, che può mettere in mostra più facilmente, e non tanto si cura d’essere, che di parere. Ha, per dir così, due esistenze: una in sè medesimo, della quale non fa verun conto; un’altra nello spirito altrui, e di questa è veramente sollecito: si contenterebbe di mentire, tradire, tremare, per esser creduto veritiero, fedele, tranquillo.

Ben diverso è quell’uomo, che non tanto s’industria di piacere agli altri, quanto a sè stesso. No, non è vero ch’egli scriver non possa, senza pensare a’ lettori suoi. Come? Potrà uno trovarsi lietissimo, compiuta che ha un’azion buona; e nol potrà, terminato che abbia un bel libro? Nè disprezza già quelle scienze, di cui ho parlato, anzi le coltiva anch’esse, ma così, che sembran più belle, e più degne della compagnia di quell’altre sue [p. 74 modifica]discipline più necessarie e più alte. Non si contenta dunque di determinare con precision sottilissima il sito d’un astro, nè s’applica a conoscere i movimenti de’ corpi celesti, come farebbe degl’ingegni e delle ruote d’una macchina, che avesse punto la sua curiosità: ma osservando quelle maravigliose corrispondenze, quella generale armonia, abbandonerà l’anima alle più nobili e sublimi contemplazioni, a quell’estasi, a que’ rapimenti, che in lui desterà la lucida e mobile architettura dell’Universo. Non solo prima di conoscer l’indole, o ciò che istinto si dice degli animali, prima de’ costumi d’un augello, o d’un pesce, studiar vorrà le nostre inclinazioni ed i nostri affetti; ma un’erba, un fiore, un insetto gl’insegnerà con una eloquenza, cui quella non giunge delle scuole, e delle accademie, gl’insegnerà Dio, ch’egli trova sempre sotto il ferro anatomico, sotto la microscopica lente, in ogni angolo della terra e del cielo, e così su le [p. 75 modifica]dipinte ale d’una farfalla, come nelle acutissime elissi d’una cometa. Perchè s’egli è vero, che tutte le scienze han la lor bellezza; senza la considerazione ciò non ostante delle relazioni, che tra quelle corrono, e noi, senza quella generale filosofia, che le penetra, scalda, sublima, sono forse altro che un puro lavor meccanico, una sterile e fredda meditazione, la quale se orna lo spirito, nudo però lascia il cuore, e nulla fa a quella perfezion morale, ch’esser dee l’oggetto primario de’ nostri studj? Avido è di cognizioni il nostro sapiente: ma non è vanità in lui la sua curiosità. Egli entra in nave, viaggia per la Grecia, vede l’Egitto, scampa appena da cento pericoli di mare e di terra; e ritornando pieno delle notizie più rare, ricco de’ più curiosi accidenti, corre subito a chiudersi nel ritiro inconsapevole d’una solitaria sua villa.

Note

  1. v. De Fin. lib. v.