Prose della volgar lingua/Libro primo/XIX

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Primo libro – capitolo XIX

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Ora mi potreste dire: cotesto tuo scriver bene onde si ritra’ egli, e da cui si cerca? Hass’egli sempre ad imprendere dagli scrittori antichi e passati? Non piaccia a Dio sempre, Giuliano, ma sí bene ogni volta che migliore e piú lodato è il parlare nelle scritture de’ passati uomini, che quello che è o in bocca o nelle scritture de’ vivi. Non dovea Cicerone o Virgilio, lasciando il parlare della loro età, ragionare con quello d’Ennio o di quegli altri, che furono piú antichi ancora di lui, perciò che essi avrebbono oro purissimo, che delle preziose vene del loro fertile e fiorito secolo si traeva, col piombo della rozza età di coloro cangiato; sí come diceste che non doveano il Petrarca e il Boccaccio col parlare di Dante, e molto meno con quello di Guido Guinicelli e di Farinata e dei nati a quegli anni ragionare. Ma quante volte aviene che la maniera della lingua delle passate stagioni è migliore che quella della presente non è, tante volte si dee per noi con lo stile delle passate stagioni scrivere, Giuliano, e non con quello del nostro tempo. Perché molto meglio e piú lodevolmente avrebbono e prosato e verseggiato, e Seneca e Tranquillo e Lucano e Claudiano e tutti quegli scrittori, che dopo ’l secolo di Giulio Cesare e d’Augusto e dopo quella monda e felice età stati sono infino a noi, se essi nella guisa di que’ loro antichi, di Virgilio dico e di Cicerone, scritto avessero, che non hanno fatto scrivendo nella loro; e molto meglio faremo noi altresí, se con lo stile del Boccaccio e del Petrarca ragioneremo nelle nostre carte, che non faremo a ragionare col nostro, perciò che senza fallo alcuno molto meglio ragionarono essi che non ragioniamo noi. Né fie per questo che dire si possa, che noi ragioniamo e scriviamo a’ morti piú che a’ vivi. A’ morti scrivono coloro, le scritture de’ quali non sono da persona lette giamai, o se pure alcuno le legge, sono que’ tali uomini di volgo, che non hanno giudicio e cosí le malvagie cose leggono come le buone, perché essi morti si possono alle scritture dirittamente chiamare, e quelle scritture altresí, le quali in ogni modo muoiono con le prime carte. La latina lingua, sí come si disse pur dianzi, era agli antichi natía, e in quel grado medesimo che è ora la volgare a noi, che cosí l’apprendevano essi tutti e cosí la usavano, come noi apprendiamo questa e usiamo, né piú né meno. Non perciò ne viene, che quale ora latinamente scrive, a’ morti si debba dire che egli scriva piú che a’ vivi, perciò che gli uomini, de’ quali ella era lingua, ora non vivono, anzi sono già molti secoli stati per lo adietro. Ma io sono forse troppo ardito, Giuliano, che di queste cose con voi cosí affermatamente ragiono e quasi come legittimo giudice voglio speditamente darne sentenza. Egli si potrà poscia, quando a voi piacerà, altra volta meglio vedere, se quello che io dico è vero; e messer Federigo alcuna cosa vi ci recherà ancora egli. - Io per me niuna cosa saprei recare sopra quelle che si son dette, - disse a questo messer Federigo - forse perciò che aggiugnere non si può sopra ’l vero. Ma io m’aveggo che il dí è basso; se Giuliano piú oltra non fa pensiero di dire egli, sarà per aventura ben fatto che noi pensiamo di dipartirci. - Né io altresí voglio dire piú oltra, - rispose il Magnifico - poscia che, o la nuova fiorentina lingua o l’antica che si lodi maggiormente, l’onore in ogni modo ne va alla patria mia. Il dipartire adunque, messer Federigo, sia quando a voi piace, se messer Ercole nondimeno s’è de’ suoi dubbi risoluto a bastanza -.