Rivista di Scienza - Vol. I/Il concetto di specie in Biologia: La critica post-darwiniana

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Federico Raffaele

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Il concetto di specie in Biologia: La critica post-darwiniana
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IL CONCETTO DI SPECIE IN BIOLOGIA.


II. - La critica post-darwiniana.


Tutti i problemi che si riferiscono alla specie furono messi in nuova luce dalla teoria della discendenza. Fra questi, come dissi nella prima parte di questo articolo, il problema della variabilità e quello delle leggi dell’eredità.

Negli ultimi anni del secolo scorso e in questi primi del nostro, botanici e zoologi si sono dedicati con metodi rigorosi all’analisi di questi problemi e sono arrivati a risultati di grandissima importanza, sia dal lato teorico, che da quello pratico. Per l’indole e per le proporzioni di questo articolo, debbo limitarmi a qualche breve cenno intorno alle nuove ricerche, e solo in quanto esse hanno diretto rapporto col nostro argomento.

Due scienziati, a mio parere, hanno portato il miglior contributo alla soluzione dei problemi cui testè alludevo; uno zoologo, il Heincke, e un botanico, il de Vries. Nel campo della sistematica, le loro opere rappresentano il principal contributo positivo del periodo di critica post-darwiniano1.

Il prof. Federico Heincke, direttore della Stazione biologica di Helgoland, pubblicò nel 1898, la prima parte di un lavoro sulla «Storia naturale dell’Aringa», sotto il titolo: «Le forme locali e le migrazioni dell’Aringa nei mari europei».

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Questo lavoro era frutto di oltre un decennio di assidue ricerche, le quali, dirette a risolvere un problema d’indole eminentemente pratica nell’interesse dell’industria della pesca, condussero l’Autore a conchiusioni teoriche degne della più grande considerazione.

Si trattava di risolvere «il problema pieno di mistero», come dice l’A., «delle migrazioni dell’Aringa, il quale da oltre un secolo ha preoccupato gli scienziati e i pescatori». Il Heincke asserisce, e forse a buon diritto, di avere, in principio, trovata la soluzione di questo problema; ma al tempo stesso e con pari diritto, egli afferma di avere, coi risultati delle sue ricerche, «aperta una vasta prospettiva alla conoscenza della variabilità degli animali nelle condizioni naturali e della formazione delle specie». Essi apportano nuovi materiali per lo accertamento delle cause della trasmutazione e gittano maggior luce sulle singole fasi di questa. Essi sostituiscono all’impreciso concetto della varietà, quello morfologicamente chiaro e definibile della «forma o famiglia locale e servono a mettere lo fondamenta d’una nuova e migliore sistematica».

I quesiti postisi dal Heincke erano fra gli altri questi: Se le aringhe dei mari europei formino un unico ceppo, senza distinzioni, i cui membri o branchi intraprendono estese e irregolari migrazioni nelle vaste regioni da esse abitate; o se la specie Aringa (Clupea harengus) comprenda varie forme locali o razze zoologicamente distinguibili, ciascuna abitante una ben circoscritta area entro cui annualmente compirebbe lo sue migrazioni. Se le forme locali si conservino a lungo costanti, cioè se le loro differenze zoologiche siano ereditarie.

Come si vede in questi quesiti è contenuto il problema della reale esistenza di gruppi zoologici e del valore d’una specie linneana qual’è la Clupea harengus.

Bene a ragione dice il Heincke: «una esatta descrizione delle Varietà e delle Specie, la quale può raggiungersi soltanto con la misura e col numero, deve altresì condurre a fondare, una nuova e migliore sistematica zoologica. Il bisogno di una siffatta sistematica è indiscutibile per tutti coloro che si sono occupati di proposito di ricerche nel campo della sistematica e delle teorie della discendenza. Costoro debbono riconoscere che la maggior parte delle diagnosi di specie e [p. 239 modifica]delle descrizioni dei nostri Manuali sistematici sono poco più che etichette da collezioni e riescono del tutto inutili pel riconoscimento della somiglianza e dell’affinità degli oggetti naturali. Eppure molti teorici della discendenza operano con queste nozioni di specie artificialmente costruite come se fossero vere entità viventi e veggono nelle così dette transizioni fra queste deformate immagini della natura la prova della trasformazione delle specie......».

«Còmpito della sistematica è non soltanto di ordinare logicamente l’infinita serie delle forme organiche, riducendole in sistema, ma anche di ordinarle come esse sono ordinate in natura. Si è detto: anche se queste innumerevoli diverse forme fossero tutte collegate da transizioni, si dovrebbe pur sempre costruire un sistema con concetti sistematici di vario ordine, cioè con specie, generi, famiglie ecc. Certamente; ma un siffatto sistema sarebbe del tutto artificiale, dappoichè i limiti dei singoli gruppi dovrebbero essere segnati in maniera interamente arbitraria».

«Ma l’osservazione c’insegna — e anche le mie ricerche ne sono una nuova conferma — che la vita organica sulla terra ci si manifesta sotto l’aspetto di individui numerosi separati nello spazio e diversi nella forma; che, inoltre, questi individui sono inegualmente diversi, e, pel grado e per la specie di questa diversità, si possono riunire in numerosi gruppi di ordine ascendente, i quali sono nella forma altrettanto nettamente separati fra di loro, quanto gli stessi individui. Così come sono reali gl’individui, sono reali anche il ceppo o famiglia, la specie, il genere e così pure tutti gli altri gruppi sistematici di ordine superiore. Questi gruppi, quando sieno giustamente riconosciuti e idealmente separati e ordinati come si trovano in natura, ci dànno il sistema naturale».

«Questa suddivisione del mondo organico in individui e in gruppi d’individui d’ordine superiore, dev’essere una necessità naturale, una condizione della vita stessa»2.

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Ho citato quasi testualmente le parole del Heincke perchè non avrei saputo meglio rendere il suo pensiero. Vediamo ora come, applicando un metodo rigorosamente scientifico, egli sia riescito a dimostrare in maniera, io credo, inoppugnabile, le sue affermazioni.

Il nostro Autore fa rilevare l’insostenibilità del dogma, accettato nell’antica sistematica, dei singoli caratteri costanti; secondo il quale due specie molto affini si sarebbero sempre potute distinguere per uno o più caratteri costanti ritrovabili in tutti gl’individui d’una specie e diversi, per un certo grado, da quelli dall’altra. Uno di tali caratteri era p. es., per le specie di Aringhe, il numero dei raggi delle pinne ventrali, che sarebbero stati 9 in tutte le Aringhe (Cl. harengus); 7, invece, negli Spratti (Cl. Sprattus; una sardina o aringa, che dir si voglia, molto comune anch’essa nei mari dell’Europa settentrionale).

Allo stesso modo si distinguerebbero le varietà e le razze; sol che le differenze sarebbero in questo caso minori.

Questo metodo è completamente sbagliato, come il Heincke ha potuto dimostrare appunto nel caso dell’Aringa e delle specie affini. «L’esistenza di differenze costanti nei singoli caratteri», egli dice «fra due specie molto vicine, come p. es. l’ Aringa, lo Spratto, la Sardina e altre, è una finzione scientifica», che «attribuisce alla natura cose che questa non conosce».

«Diametralmente opposta alla vecchia sistematica, è una nuova scuola che nega addirittura l’esistenza di differenze costanti fra specie e varietà affini, affermando che queste forme sono in continua oscillazione, sia per la continua trasformazione dovuta alla cernita naturale, sia per gl’incrociamenti. Per questi sistematici moderni, le due specie, l’Aringa e lo Spratto sono collegate da una completa serie di forme intermedie: in tutti i caratteri si trovano graduali passaggi, come p. es. in quello del numero delle vertebre e in quello del numero delle squamme carenate ventrali. Se queste transizioni [p. 241 modifica]in alcuni caratteri si presentano molto di rado, ma, insieme, in maniera molto apparente, si attribuisce il fatto a ibridismo».

L’errore della nuova scuola non è minore di quello della vecchia, afferma Heincke, imperocchè tali transizioni sono apparenti, non reali.

Questo egli dimostra, applicando allo studio della variabilità, nel caso speciale delle Aringhe, i metodi matematici già, da tempo in uso in Antropometria; i quali servono a stabilire i valori medii dei singoli caratteri. Pigliando in esame dei caratteri esprimibili con numeri, si vede facilmente che, per ciascun singolo carattere, gl’individui d’una specie oscillano intorno a una media, la quale sarà determinata con tanto maggior sicurezza, quanto maggiore è il numero d’individui esaminati.

Contando, per esempio, il numero delle squamme carenate, che si trovano lungo la linea ventrale del corpo, fra l’impianto delle pinne ventrali e l’ano, si trova che esso, nelle Aringhe, va, da un minimo di 11, a un massimo di 17, e, negli Spratti, da 9 a 13. Nelle Aringhe i numeri 11, 12 e 13, e negli Spratti il numero 13, s’incontrano così raramente, che essi poco influiscono sul valore della media.

Teoricamente, per ottenere il vero valore medio d’un carattere esprimibile con un numero, si dovrebbero esaminare tutti gl’individui d’un dato gruppo, e così si conoscerebbe anche l’esatta ripartizione degl’individui intorno a quel valore medio, cioè quanti individui presentano un dato numero e quali numeri sono per conseguenza i più frequenti, quali i più rari a incontrarsi; poichè è chiaro che, se ci contentiamo di esaminare soltanto un certo numero d’individui presi a caso, potremmo da una parte non aver la vera media, e non saremmo, d’altra parte, sicuri che una qualunque altra raccolta di altri individui presenti la medesima distribuzione o frequenza dei singoli valori trovati.

Di una certa razza d’Aringhe, p. es., Heincke, contando il numero totale delle vertebre in 172 individui adulti trovò gl’individui così ripartiti rispetto al numero delle vertebre:

Numero delle vertebre 53 54 55 56 57
» degli individui 2 + 9 + 77 + 72 + 12 = 172;
[p. 242 modifica]il numero medio di vertebre era in questo caso 55,48 — una media ideale, come si vede, che non può trovarsi in nessun individuo — la quale risulta dall’esservi 2 individui con 53 vertebre, 9 con 54, 77 con 55 e così via; ma che potrebbe anche risultare da un diverso aggruppamento d’individui, per esempio dall’esserci in una metà di tutte le aringhe 55 vertebre, nell’altra metà 56 (con approssimazione fino alla 2a decimale), o in una metà 54 e nell’altra 57 o da un’altra delle tante possibili distribuzioni.

Siccome non è possibile esaminare tutte le aringhe, dovremmo rinunziare al metodo delle medie. Ma, per buona ventura, le ricerche, iniziate dagli Antropologi e principalmente dal Quetelet, dal Galton, dallo Stieda, e continuate di recente da alcuni naturalisti nel campo della Botanica e della Zoologia, hanno condotto alla scoperta di una legge, che Heincke formula come segue: gl’individui vegetali o animali viventi nelle medesime condizioni e legati intimamente fra di loro da rapporti di consanguineità, cioè gl’individui appartenenti a una forma locale o razza, rappresentano, per un qualsiasi carattere individuale costante, le accidentali deviazioni dal valore medio di quel carattere, per un determinato grado di oscillazione intorno a detta media. Essi si comportano, l’uno rispetto all’altro e rispetto alla media, come gli errori d’una qualsiasi serie di osservazioni rispetto al valore più probabile, ossia al valore medio della grandezza osservata per una data precisione della osservazione stessa.

Questa legge permette di applicare alla variabilità individuale, entro un gruppo naturale, i metodi matematici in uso per la determinazione degli errori; e permette, prima di tutto, di stabilire quale numero di osservazioni è sufficiente per determinare con una voluta approssimazione il valore medio e la probabilità delle singole deviazioni (corrispondenti ai singoli errori).

Il prof. Heincke, applicando quei metodi ai numeri ricavati dalle sue osservazioni potè constatare che «il numero delle vertebre di quella razza d’aringhe sottostà realmente alle leggi del caso». I valori calcolati, ammettendo a priori che ciò fosse vero, per le 172 aringhe, concordavano in modo soddisfacente con i valori ricavati dall’osservazione diretta. Moltiplicando le osservazioni, si conferma essere un numero relativamente piccolo d’individui sufficiente a stabilire numeri [p. 243 modifica]che corrispondono con soddisfacente approssimazione alla realtà.

Oltre al numero delle vertebre, molti altri caratteri, esprimibili numericamente, possono essere stabiliti, sia, che si tratti, come per le vertebre, di parti che si possano contare (le squamme carenate ventrali p. es.), sia di misure (larghezza del cranio, distanza delle pinne dall’apice del muso, ecc.).

In quest’ultimo caso si introduce, naturalmente, una nuova causa d’errori, gli errori in cui si incorre in ogni misurazione; ma con qualche opportuna precauzione essi possono essere resi praticamente trascurabili.

Heincke giustamente insiste sulla necessità di tener conto soltanto di caratteri esprimibili con numeri, come quelli, che, soli, possono condurre a risultati scientificamente attendibili. Per tutti i caratteri di tal genere presi in esame, si verificano le leggi cui abbiam veduto sottostare il numero delle vertebre. Verificando quindi il modo di comportarsi dei singoli individui rispetto a detti caratteri nelle varie razze locali, il Heincke venne alle seguenti conchiusioni:

1° È dimostrata l’esistenza di razze locali dell’Aringa.
2° Le razze dell’Aringa si distingono per molti caratteri, e, in generale, per i medesimi caratteri pei quali si distinguono fra di loro le specie del genere Clupea.
3° Di regola le razze molto distinte fra di loro geograficamente, o, meglio, fisicamente, cioè quelle, che vivono sotto condizioni esterne molto diverse, sono, in certi caratteri, molto più diverse di quelle che vivono insieme.

Ma se questo metodo di distinguere le differenze fra le varie razze mediante l’esame dei singoli caratteri permette di dimostrare l’esistenza di diverse razze, esso non permette del pari di riconoscere con sicurezza se un dato individuo, preso a caso, appartenga ad una o ad un’altra razza. Infatti, confrontando fra di loro le deviazioni dalla media d’un carattere qualunque, che possono presentare i singoli individui, si vede subito che individui di razze diverse possono coincidere in un carattere, avere cioè, p. es. uno stesso numero di vertebre, o di squamme carenate ventrali, ecc.

Ma l’osservazione dimostra che quanti più sono i caratteri presi in esame, tanto più è raro trovare tali coincidenze in tutti i caratteri; che questi vari caratteri sono indipendenti l’uno dall’altro e si trovano riuniti in ogni singolo [p. 244 modifica]individuo anche secondo le leggi del caso, cioè come p. es. i vari numeri di un certo numero di dadi di una data giocata.

Detto con altre parole: vi è una certa probabilità che due individui di razza diversa coincidano in un dato carattere, nel numero delle vertebre p. es.; ma la probabilità che quei due individui coincidano anche in un altro carattere, nel numero delle squamme ventrali, p. es., è certamente minore della prima; anche minore sarà la probabilità della coincidenza in tre diversi caratteri, finchè, quando si considerasse un numero grandissimo di caratteri diversi, la probabilità della coincidenza di due individui in tutti questi caratteri sarebbe piccolissima, praticamente trascurabile, ciò che equivale a dire che non esistono due individui di razza diversa che coincidono in tutti i caratteri della razza.

Tutto questo, che ho qui cercato di esprimere brevemente nella maniera più semplice e chiara che mi fosse possibile, è stato dimostrato rigorosamente dal Heincke con metodi matematici, ond’egli ha potuto conchiudere che:

Gl’individui d’una razza rappresentano, tanto in ogni singolo carattere, quanto nella combinazione di tutti i loro caratteri, le modificazioni accidentali d’un tipo ideale, il quale ci è dato dalla media di tutti i caratteri di tutti gl’individui, per un dato grado di oscillazione in ogni singolo carattere.

È necessario qui prevenire una obiezione, della quale, per altro, lo stesso Heincke ha tenuto il debito conto.

È noto che fra le leggi della organizzazione degli esseri viventi ve n’è una, conosciuta da molto tempo, ma non ancora completamente analizzata, detta della correlazione degli organi; la quale consiste in questo, che, in ogni organismo, le varie parti sono fra di loro in un certo rapporto, onde una non può variare senza che variino anche certe altre. Dato, che fra i vari caratteri delle aringhe vi fosse una qualsiasi correlazione, è chiaro che la legge dell’indipendenza dei singoli caratteri affermata dal Heincke non sarebbe più vera, e, per conseguenza, non sarebbe nè meno giusto di considerare un individuo come la combinazione fortuita dei caratteri, e quindi di applicare il calcolo delle probabilità ai numeri esprimenti quei caratteri considerati come avvenimenti indipendenti.

Ma Heincke, spinto a ciò da uno studio del Duncker sulle «Correlazioni nel numero dei raggi di alcune pinne dell’Acerina cernua» e da ricerche del Galton sul medesimo [p. 245 modifica]argomento delle correlazioni, ha potuto assodare che le correlazioni esistono senza dubbio, ma che «i diversi gradi di correlazione delle deviazioni sono anch’essi opera del caso», e che così la legge di correlazione non è per nulla in contraddizione con quella da lui formulata sulla variabilità degl’individui e sulla combinazione dei caratteri.

Gli stessi procedimenti usati per distinguere le razze servono a distinguere le varie specie d’aringhe e conducono similmente a riconoscerne la reale esistenza.

Mi pare opportuno, sebbene in un certo senso ciò non rientri rigorosamente nei limiti di questo saggio, di riportare le considerazioni sulla variabilità e sull’origine delle specie suggerite al Heincke dai suoi studii sulle aringhe. Anche qui cito quasi testualmente.

La maggior parte dei naturalisti, dice il nostro Autore, opinano essere le differenze individuali degli animali e delle piante il punto di partenza della trasformazione (origine) delle specie.

Per essi il variar d’una specie significa che essa comincia a trasformarsi. Il variare è dunque, secondo loro, un processo. Ciò che determina la variabilità è ignoto per alcuni, per altri sta nei cambiamenti delle condizioni di vita o nella riproduzione sessuale; ma quasi tutti ammettono la cernita naturale.

«Secondo le mie osservazioni le differenze individuali non rappresentano un processo, ma uno stato, altrettanto necessario quanto l’esistenza dell’individuo stesso. L’assoluta eguaglianza degl’individui è impossibile; le loro necessarie differenze sono il risultato delle molteplici accidentali deviazioni dal tipo medio».

Il grado di differenza in ogni carattere (o coefficiente di variazione, o deviazione probabile), dipende dall’ampiezza delle oscillazioni, nelle condizioni di vita della famiglia, il cui valore medio è immutabile. Finché queste condizioni di vita non cambiano, non cambierà nè il valore medio, nè l’ampiezza delle oscillazioni; sicchè le differenze individuali non possono esser punto di partenza d’una trasformazione della famiglia. L’incrociamento non può produrre nuove variazioni, oltre i limiti, cioè, della variabilità della razza; nè la cernita naturale trova su che spiegare la sua azione; perchè tutti gl’individui sono egualmente buoni e bene adatti alle condizioni in cui vivono. Certamente molti vanno distrutti, ma non già [p. 246 modifica]perchè meno atti, sibbene perchè la condizione d’ogni vita organica e la sua dipendenza dalle condizioni fisiche rendono necessario un dato rapporto numerico fra i germi e gli adulti; un individuo può sottrarsi a una causa di distruzione per sue qualità proprie, ma in un altro caso soccomberà più facilmente d’un altro (legge di compensazione dei caratteri).

Se la cernita naturale agisse realmente, tutti gl’individui d’una forma dovrebbero possedere in ogni carattere i migliori requisiti compatibili con le date condizioni; dorremmo trovare, cioè, individui completi nel nostro senso; mentre noi vediamo, invece, vivere e riprodursi individui molto poco favoriti, tanto fra gli animali domestici, quanto in natura. La variabilità individuale, sia pure grandissima, non è una prova della trasformabilità della specie, nè è una causa determinante, o un mezzo di trasformazione.

Secondo il Darwin, dovremmo essere sicuri, che una modificazione, anche menomamente nociva, conduca insensibilmente alla distruzione d’una forma. Ma non sappiamo quali variazioni sieno nocive e quali favorevoli. In ogni carattere le deviazioni in più e quello in meno rispetto alla media sono in numero eguale e sono tante quanti sono gl’individui. Se fossero nocive tutte le deviazioni positive (in più), o tutte le negative, dovrebb’essere conservata la metà di tutti gl’individui; ma pochi invece arrivano a riprodursi. Sono dunque utili soltanto alcune variazioni? E dove si trovano: fra le positive? o dallo due parti? e in tal caso ogni variazione sarà sempre un poco nociva. I darwinisti dànno alla selezione il còmpito di eliminare le variazioni estreme: ma la conseguenza sarebbe la distruzione di tutti gl’individui. Essi confondono la probabilità con l’utilità. Che tutti gl’individui d’un gruppo abbiano diversamente sviluppate certe qualità, non significa, che essi abbiano deviazioni diversamente utili; ma soltanto che, nelle date condizioni, talune deviazioni hanno una maggiore probabilità, cioè sono più frequenti. Le variazioni estreme sono sempre rare, ma, dal momento che esistono, sono anch’esse necessarie, cioè sono conseguenza delle condizioni di vita; e se queste rimangono immutate, quelle variazioni estreme ritorneranno con la medesima certezza di quelle minime presentate dal maggior numero d’individui.

Quando le condizioni di vita cambiano, la famiglia o si modifica o soccombe; o deve cambiar la media, o, rimanendo [p. 247 modifica]questa immutata, debbono cambiare i coefficienti di variazione, o debbono nascere altri caratteri.

Questa trasformazione del tipo ideale avviene non per selezione di caratteri preesistenti, ma per indiretta azione reciproca fra gli organismi e il mondo esterno.

Supponiamo che varii il tipo medio in un sol carattere; allora la curva di variazione di questo sarà diversa; e se la nuova curva avrà, pochi o nessun punto di contatto con la prima, gl’individui corrispondenti a questa saranno eccessivamente improbabili o impossibili addirittura. Se le curve hanno punti comuni, gl’individui possibili vivranno nelle nuove condizioni, saranno scelti; ma, riproducendosi, essi non daranno sùbito individui oscillanti intorno alla nuova media.

Considerazioni simili erano già state svolte, sebbene in forma meno precisa, dal Pfeffer3, che conchiudeva una sua conferenza con queste parole:

«La lotta per l’esistenza elimina tutti gl’individui cattivi e lascia sopravvivere alcuni individui appartenenti alla media degli ottimi (tadellosen); i cambiamenti delle condizioni esterne di vita trasformano le specie cambiando la media degl’individui sopravvissuti; essi imprimono, cioè, all’insieme della specie una diversa impronta generale e la fanno apparire come un’altra razza, varietà o specie di fronte alle sue affini».

E il Godron4 aveva già molto tempo prima espresso la stessa idea, scrivendo: «L’espèce n’a donc pas plus varié pendant les temps géologiques, que durant la période de l’homme....... les espèces ont conservé, au contraire, leur stabilité jusqu’à ce que des conditions nouvelles aient rendu leur existence impossible; alors elles ont péri, mais elles ne se sont pas modifiées». Se non che, il Godron, come si vede, negava addirittura la possibilità d’una trasformazione; e, come logica conseguenza, accettava l’ipotesi delle creazioni successive: «...... et tous ces faits» egli conchiudeva, «nous démontrent la pluralité et la succession de créations organiques spéciales aux divers âges de notre planète (p. 333)».

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I risultati ottenuti da Heincke e da altri, i quali più o meno rigorosamente e completamente hanno applicato i metodi statistici allo studio della variabilità, rappresentano, io credo, uno dei maggiori progressi della zoologia moderna e il più importante e sicuro passo fatto verso la determinazione del concetto scientifico della specie e dei piccoli gruppi in generale, della cui reale esistenza essi non ci permettono più di dubitare. Per la loro indole stessa questi metodi non sono applicabili in ogni caso, ma solo quando si può disporre di un numero piuttosto grande d’individui e operare con caratteri esprimibili numericamente. Oltre a ciò l’applicazione di questi metodi richiede un lungo, paziente e non facile lavoro.

Per questi motivi non possiamo aspettarci un gran numero di ricerche del genere. Tuttavia, lo conchiusioni cui si è arrivato nei pochi casi studiati possono essere generalizzate con tutta sicurezza. E ciò tanto maggiormente, che esse concordano completamente con i risultati cui si è giunti per altra via; quelli cioè ottenuti con l’analisi dei prodotti delle fecondazioni incrociate.

L’ereditarietà dei caratteri proprii di un gruppo naturale (specie, razza, forma locale), è un fatto ben conosciuto, e come vedemmo, uno dei criterii di cui i naturalisti si sono serviti por determinare il concetto dei gruppi stessi. Lo studio della variabibilità coi metodi statistici non ha fatto che confermarlo.

Ma è ben noto anche che negli animali e nelle piante, a sessi distinti, cioè nella gran maggioranza degli esseri viventi, sono possibili fecondazioni incrociate fra individui di sesso diverso appartenenti a specie o razze diverse. Questi incrociamenti, in molti casi fecondi, dànno, come prodotti, i così detti ibridi o bastardi, i quali, non di rado, sono fecondi se possono accoppiarsi fra di loro.

Gli allevatori e gli orticoltori si sono da molto tempo giovati di questo fatto per ottenere razze o varietà dotate di particolari caratteri. Anche in natura avvengono simili incrociamenti. Gl’ibridi non presentano nessun carattere nuovo, che non si trovi nei genitori. Ma i varii caratteri dei genitori si palesano in essi più o meno evidentemente.

L’opera recentissima del geniale botanico di Amsterdam, [p. 249 modifica]Hugo de Vries5, ha illuminato di nuova e intensa luce il problema della specie. Le ricerche del de Vries sulla variabilità nel mondo vegetale e sull’ibridismo allargano le concezioni del Heincke, pienamente confermandone la giustezza; mentre la sua scoperta delle mutazioni apre nuovi orizzonti al problema dell’origine delle specie.

Il de Vries, indipendentemente dal Heincke e dai moderni zoologi, che hanno lavorato nel medesimo senso, è arrivato, con l’applicazione dello stesso metodo allo studio della variabilità nelle piante, alla identica conchiusione: che, cioè, le specie linneane sono, in massima parte, complessi di unità biologiche più piccole, le così dette specie elementari, o piccole specie, le quali mi pare corrispondano, in tutto e per tutto, alle famiglie, razze o forme locali di Heincke6.

Le leggi della variabilità sono le stesse entro queste specie elementari botaniche. Anche qui si tratta di variabilità statistica o fluttuante, cioè di una oscillazione dei singoli individui per ciascun carattere specifico, in più o in meno, intorno a un valore medio (ideale) del carattere, entro limiti, che non sono mai oltrepassati.

A questa variabilità fluttuante, il de Vries oppone la variabilità brusca, cui egli dà il nome di mutazione, che talvolta si presenta spontaneamente in alcuni individui d’una specie, i quali presentano, tutt’a un tratto uno o più caratteri nuovi, che si mantengono costanti nella discendenza di questi individui mutati. La nozione di siffatto genere di variazione non è nuova nella scienza. Già il Darwin ne aveva parlato nell’origine delle specie, citandone alcuni esempi (quello notissimo, p. es., delle pecore Ancon), ma egli non ne aveva compreso tutto il valore, ossessionato com’era dalla sua idea della trasformazione graduale per accumulo delle piccole variazioni sotto l’azione della concorrenza vitale. L’Huxley aveva acutamente [p. 250 modifica]intuìto lo sbaglio, e rimproverava al suo grande amico di essersi inutilmente inceppato nelle pastoie tradizionali del «natura non facit saltum»; e il Kölliker aveva pure, poco incline ad accettare la spiegazione darwiniana della formazione della specie, messo avanti la possibilità d’una «eterogenesi», cioè d’una dissimiglianza eventuale fra i discendenti e i genitori. Altri critici avevano, a più riprese, con argomenti spesso molto serii, dimostrato l’insufficienza del principio della cernita naturale delle piccole variazioni individuali. Ma nessuno, prima del de Vries, aveva potuto dimostrare con egual rigore ed evidenza, l’esistenza delle mutazioni come fatto naturale costante e il loro significato come punto di partenza di nuove forme organiche.

Una parte dell’opera del de Vries è, come dissi, dedicata all’analisi della variabilità. Egli dimostra, come il Heincke aveva fatto per le Aringhe, che le piccole specie in natura si mantengono rigorosamente costanti nei loro caratteri, e che le modificazioni dovute all’opera dell’uomo nelle piante coltivate, siano esse ottenute con la semplice cultura, e con la selezione, o con gl’incrociamenti, non introducono mai nessun nuovo carattere; non trasformano essenzialmente le specie. In ciò il de Vries concorda con le affermazioni già fin dal 1859 espresse dal Godron, se non che egli le stabilisce su più rigorosa base, servendosi dei metodi statistici e le oppone trionfalmente alle opinioni dominanti dal Darwin in poi, in virtù delle quali erano rimaste nell’oblio e si credevano debellate tutte le altre, che non si potessero adattare ai nuovi dogmi.

«È assolutamente infondata» dice il de Vries, «l’opinione, che la variazione lineare» (cioè in un senso o nell’altro di un dato carattere) «sia illimitata, così che, per mezzo della selezione, nel corso di secoli o di millenni, si potessero produrre trasformazioni più importanti che non nel corso di pochi anni. Si tratta naturalmente, del miglioramento di ciascun singolo carattere considerato per sè stesso. Ma a ciò bastano, in condizioni favorevoli, 2-3 e, per solito non più di 3-5 generazioni. Una ulteriore selezione serve soltanto a mantenere la razza al punto da essa raggiunto, sempre che non intervengano speciali circostanze»7.

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II fatto rilevato dal Darwin che le piante (nei primi anni da che sono coltivate), diventano gradatamente più variabili, è dovuto in primo luogo all’accrescersi in estensione della coltura e poi anche al fatto, che nuove sottospecie si palesano, le quali dapprincipio erano rimaste sconosciute.

Nello studio dei caratteri degl’ibridi, il de Vries era stato preceduto da Gregorio Mendel insegnante di fisica a Graz, il quale, spinto dalle opere del Darwin, volle dedicarsi all’analisi delle leggi dell’eredità con metodo sperimentale, e pubblicò nel 1865 uno scritto che precorreva i tempi e rimase nell’oblìo, finché il de Vries, che già era arrivato a risultati identici, e lo Tschermak non lo ebbero scovato e messo al posto d’onore che gli spetta fra le più geniali opere biologiche.

Il de Vries, dalle sue ricerche sulla variabilità era stato condotto, come Heincke, a riconoscere che i caratteri specifici sono indipendenti l’uno dall’altro. E anche lui scinde il problema della origine delle specie da quello dell’origine dei caratteri specifici; il primo si riferisce a un processo storico, conoscibile soltanto in pochissimi casi; il secondo rientra nel campo della fisiologia. «Noi non sappiamo,» egli dice «che cosa siano i caratteri specifici. Ma sappiamo, in ogni caso, che le specie elementari, anche quelle più affini fra loro, non differiscono per un solo carattere, ma in quasi tutti i loro organi e in tutte le loro qualità.» Si noti la comunanza di queste idee con quelle espresse affatto indipendentemente dal Heincke; concordanza che acquista valore pel fatto, che il de Vries sembra ignorare l’esistenza del lavoro del Heincke, ciò che non deve troppo meravigliare, se si pensa che ii de Vries è un botanico, e che il titolo dell’opera dello zoologo tedesco non lascia supporre la materia contenutavi. Più strano mi sembra che le ricerche di Heincke sieno passate sotto silenzio dagli zoologi, compresi quelli che si sono occupati di argomenti affini.

«Nessuna pianta», dice il de Vries, «dà in eredità ai suoi discendenti i suoi caratteri come un tutto unico, come finora si è creduto. Proprio all’opposto, abbiamo imparato a conoscere una lunga serie di fenomeni nei quali si è potuto separare o un singolo carattere, o un gruppo più o meno grande di caratteri».

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«L’analisi degli organismi ci conduce a riconoscere delle unità, che, in varii punti, sono analoghe alle molecole chimiche. Sol che esse hanno una struttura molto più complessa e sono prodotte mediante un processo storico».

L’esistenza di questi «caratteri elementari» e la loro indipendenza, ci si manifestano nelle così dette «leggi del Mendel» che questo sagace osservatore trasse dai suoi esperimenti di ibridazione fra varie qualità di piselli.

Gli esperimenti del Mendel furono poi ripetuti ed estesi da altri; principalmente dallo stesso de Vries.

Negli esperimenti sugl’ibridi, si tratta di scegliere due varietà o piccole specie molto affini fra di loro, le quali, nel caso più semplice, differiscano nettamente in un sol carattere, incrociarle reciprocamente e seguire le varie successive generazioni d’ibridi, mantenendole isolate, onde evitare possibili incrociamenti fortuiti. Scelgo due esempii molto illustrativi tratti dal de Vries.

Esistono due varietà ben distinte di granturco: nell’una i grani contengono zucchero (destrina), nell’altra (la più comune), amido. Fresche, le spighe della varietà zuccherina non differiscono da quelle dell’amilacea; ma quando seccano, i chicchi della prima perdono molt’acqua, divengono grinzosi e semitrasparenti, mentre quelli dell’altra rimangono rotondeggianti lisci e opachi. L’analisi chimica mette in chiaro la differenza dei frutti delle due varietà, di cui questo diverso aspetto è l’espressione sensibile a prima vista. Queste due varietà si riproducono con assoluta costanza, sempre che, natural mente, si escludano le possibilità d’incrociamenti accidentali.

Per procedere all’esperimento basta coltivare le due varietà in filari alterni e recidere i fiori maschi di tutti gli individui d’una di esse un paio di giorni prima che sboccino. Tutte le piante così castrate non potranno essere fecondate se non dal polline dell’altra varietà. Qualunque sia la varietà castrata, il risultato finale è sempre lo stesso: tutte le spighe che si sviluppano presentano il carattere della varietà amilacea, cioè, quando sono secche, hanno chicchi lisci e opachi. Questo carattere, che si afferma ad esclusione dell’altro, suo antagonista, come lo si può efficacemente chiamare col de Vries, fu detto dal Mendel dominante, mentre egli chiamò recessivo, l’altro carattere della coppia, che rimane latente nella prima generazione di bastardi.

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Seminando ora i grani della prima generazione e lasciandoli germinare e crescere lontani da altre sorte di Mais, onde evitare le eventuali fecondazioni incrociate, e lasciando poi le piante fecondarsi fra di loro o interfecondandole artificialmente, si vedranno spuntare delle spighe, che una volta disseccate, si mostreranno composte ciascuna delle due sorte di chicchi dei primi genitori. I chicchi lisci, quelli cioè con amido, saranno in maggioranza, in minoranza quelli zuccherini, grinzosi; e propriamente il numero di questi starà al numero dei primi nel rapporto 1 : 3, cioè della totalità dei chicchi d’una spiga i avranno il carattere dominante, il recessivo. Se ora si seminano questi grani a carattere recessivo, nasceranno piante che produrranno spighe composte esclusivamente di grani simili; si ritornerà, come conferma l’esame delle successive generazioni, a una varietà costante zuccherina, simile, pel carattere preso in considerazione, alla varietà paterna o materna dell’incrociamento. Lo stesso non accade pei semi a carattere dominante. Ma sul destino di questi meglio c’informa un altro esperimento fatto dal de Vries, incrociando fra di loro, con lo stesso procedimento usato pel granturco, due varietà costanti di papaveri (Papaver somniferum) conosciute sotto il nome di Mephisto l’una, che porta sui petali una specie di croce nera, e Danebrog (bandiera danese) l’altra, con una croce bianca in campo rosso.

Le piante della prima generazione bastarda, venute su cioè nel 1° anno da semi risultanti dall’incrociamento delle due varietà, produssero tutte fiori della varietà Mephisto. I semi ottenuti dalla interfecondazione di questi nuovi Mephisto, dettero, come seconda generazione bastarda, il 22,5% di Danebrog (carattere recessivo) contro il 77,5% di Mephisto (c. dominante). Nella terza genenerazione i Danebrog si riprodussero puri, dando il 100% di Danebrog; i Mephisto, invece, si scissero nuovamente, palesando la loro natura mista; quattro piante madri dettero una discendenza di puri Mephisto, nove una discendenza mista, composta di 68-83% Mephisto e 32-17% Danebrog. Degl’ibridi della terza generazione dunque sono di razza costante a carattere recessivo affermatasi fin dalla prima, di razza costante a carattere dominante (le 4 piante suddette a discendenza di puri Mephisto) e l’altra metà è fatta d’ibridi scomponibili alla lor volta nella discendenza (le 9 piante) come gl’ibridi della prima generazione.

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Indicando con A il numero d’individui a carattere attivo (dominante) con L (quello degli individui a carattere latente (recessivo) e con H il numero degl’individui ibridi, cioè portanti ancora indivisa la coppia di caratteri, si può esprimere questo risultato con la formula 1A + 2H + 1L la quale esprime la legge del Mendel della ripartizione di due caratteri antagonisti nei Monoibridi della 3ª generazione.

Per osservazioni concordanti del Mendel, del Correns, del de Vries, è assodato che i tipi divenuti costanti nella 3ª generazione rimangono tali nelle generazioni successive; mentre gl’ibridi continuano a sdoppiarsi, seguendo le medesime leggi, in ogni successiva generazione.

Nell’ibrido i due caratteri antagonisti rimangono l’uno accanto all’altro, e durante tutta la vita vegetativa si manifesta per solito soltanto il carattere dominante, sia pure, talvolta più o meno attenuato dal recessivo. Raramente essi si separano in detto periodo, dando luogo alle così dette variazioni parziali, nelle quali in una data parte d’un fiore, d’un frutto, d’un grappolo, o sullo stesso ramo, appare il carattere recessivo solitamente latente. Ma nell’atto della riproduzione avviene sempre la scissione dei due caratteri. Già il Naudin aveva messo in rilievo questi fatti dell’ibridismo e aveva detto: «Tous ces faits vont s’expliquer naturellement par la disjonction des deux essences spécifiques dans le pollen et les ovules de l’hybride». Il termine vago di «essenza specifica» si precisa, osserva il de Vries, grazie agli esperimenti del Mendel, nei singoli caratteri.

Ammettendo, col Mendel, che una metà degli elementi germinali contenga uno dei caratteri e l’altra l’altro, si ha che i granelli di polline sono per metà a carattere dominante, e per metà a carattere recessivo. Lo stesso sarà per gli ovuli. Ora, essendo la probabilità della unione a due a due dei granelli di polline con gli ovuli, nell’atto della fecondazione, la stessa per le due sorte di polline e di ovuli, saranno egualmente probabili, su cento elementi di ogni sesso, le seguenti combinazioni:

Ovuli Polline
25 % d. + 25 % d.
25 % d. + 25 % r.
25 % r. + 25 % d.
25 % r. + 25 % r.
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I prodotti della fecondazione saranno cioè: per 14 dominanti, per 14 recessivi, per 12 dominanti e recessivi; cioè la discendenza sarà composta per un quarto d’individui col carattere paterno, per un quarto d’individui col carattere materno, e per l’altra metà di ibridi, cioè proprio come nella formula 1A + 2H + 1L ricavata dagli esperimenti.

Questa ipotesi della indipendenza dei caratteri paterni e materni nelle cellule germinali, che rende così ben ragione dei fatti che si verificano nell’ibridismo, trova forse anche un punto d’appoggio nella indipendenza della cromatina materna e della cromatina paterna (sostanza nucleare) constatata nelle ova fecondate e nelle cellule risultanti dalla segmentazione dell’ovo osservata in certi animali (Ascaris Cyclops): e forse anche nelle recenti osservazioni sull’esistenza e il modo di comportarsi di certi elementi cromatici (eterocromosomi) nelle cellule germinali di alcune specie d’insetti8.

Senza star qui a riferire le osservazioni e gli esperimenti fatti sugli incrociamenti dei monoibridi con uno dei genitori, nè quelli sulla verificazione delle leggi del Mendel anche nei polibridi, (ibridi cioè derivanti da genitori distinti in due o più coppie di caratteri antagonisti), mi contenterò di dire che essi confermano le leggi suddette, sebbene l’analisi si faccia sempre più complicata con l’aumentar del numero dei caratteri, e rendono sempre più evidente l’indipendenza dei caratteri specifici e il fatto che negl’ibridi non s’introduce nessun nuovo carattere. Perciò giustamente il de Vries conchiude che «le forme, che negl’incrociamenti reciproci seguono in tutti i loro caratteri le leggi del Mendel, debbono ritenersi come varietà d’una medesima specie», fissando così, per la prima volta, in base a una nozione precisa, il concetto di «varietà» e nettamento contrapponendolo a quello di «specie elementare». «La differenza fra neoformazione e trasmissione di abbozzi (di caratteri) corrisponde a capello alla differenza, che i migliori sistematici hanno cercato di stabilire fra specie e varietà».

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«Ogni forma, originatasi per neoformazione d’un abbozzo interno, deve ritenersi come una specie; ogni altra, che deve le sue caratteristiche al modificarsi di abbozzi proesistenti, come una varietà»9.

Nel campo della zoologia non mancano le conferme di questi fatti scoperti per la prima volta nelle piante.

Il Lang, con esperimenti proseguiti per molti anni, ha verificate le leggi di Mendel incrociando due varietà di chiocciole (Helix), una a conchiglia chiara, di tinta uniforme, l’altra con fasciatura bruna. Recentissimi esperimenti d’ibridazione fra una razza bianca e una nera di Axolotl, nello stadio di Siredon, eseguiti dal Häcker, hanno pure pienamente confermate le leggi del Mendel.

Gli esperimenti di fecondazione incrociata fra la varietà albina del topolino domestico e quella giapponese dei così detti «topi danzanti» ci lasciano intravvedere la possibilità d’una nuova conferma; e sebbene non vi sia un completo accordo fra i vari autori sull’interpretazione dei fatti, questi mi sembrano tuttavia parlare chiaramente a favore, se non d’altro, della indipendenza dei singoli caratteri di razza10.

Il de Vries, in base all’esame della variabilità fluttuante e delle leggi dell’ibridismo, nega, come il Heincke, o per lo meno dice non dimostrata finora la possibilità d’una trasformazione delle specie elementari per selezione delle variazioni fluttuanti. La variabilità, egli dice, è uno stato, non un processo.

Ma a differenza del Heincke, egli spiega la formazione di nuove specie con un processo, che egli pel primo ha, se non scoperto addirittura, mosso in grande evidenza: quello delle mutazioni. In un dato momento della vita di una specie avviene che varii individui presentino ex abrupto dei nuovi caratteri, i quali si ripresentano costantemente nella discendenza. In una pianta esotica che cresce spontanea nei dintorni di Amsterdam, l’Oenothera Lamarckiana, il de Vries trovò varii individui in mutazione. Coltivati separatamente, questi mutanti dettero una discendenza in cui i nuovi caratteri si mantennero costanti. Egli potette così allevare per molte [p. 257 modifica]generazioni, durante varii anni, un certo numero di sottospecie, che avevano tutti i requisiti di specie elementari.

La differenza fra la variabilitâ fluttuante e la variazione per mutazione può bene illustrarsi con l’esempio addotto dal de Vries del poliedro del Galton. Un poliedro regolare può stare in equilibrio stabile su una qualsiasi delle sue facce. Piccole scosse possono farlo oscillare più o meno intorno a questa sua posizione d’equilibrio senza cambiarla. Ma una scossa più forte può far rotolare il poliedro e farlo ricadere in equilibrio su un’altra faccia: lo stato di equilibrio su una faccia rappresenta la specie elementare nel suo stato di variabilità fluttuante; il cambiamento di faccia la mutazione.

«Il progresso nella natura organica» dico il de Vries, «sta essenzialmente in un crescente differenziamento. Le proprietà, che nel loro insieme costituiscono l’impronta d’una specie divengono più numerose; di regola, ogni essere organizzato superiore ne possiede in numero maggiore dei suoi antenati di tempi molto remoti . . . . Il numero delle unità (caratteri) elementari va aumentando . . . . . . . . . . . . . . . . . .».

«Il nuovo carattere non è visibile fin dal suo primo apparire. Dapprincipio si tratta non di caratteri esterni, ma di abbozzi interni, da cui quelli poi provengono. Come il germe contiene molti abbozzi, che poi si evolveranno, così può pensarsi che un carattere nel suo primo apparire, nella sua nascita filogenetica, oserei dire, rimane dapprima latente, per poi più tardi, forse soltanto molto più tardi, divenire attivo».

« Il processo interno può indicarsi col nome di premutazione . . . . Questa è ipotetica, la mutazione empirica. Un abbozzo interno non produce necessariamente un carattere esterno. Come nell’ontogenesi, anche nella filogenesi, un carattere può rimanere latente. Quando un nuovo carattere diviene attivo dal suo stato latente, si ha una mutazione progressiva; quando esso ritorna allo stato latente, una mutazione regressiva».

Altri esempi di mutazioni, oltre quello della Oenothera, non mancano, sia nelle piante, che negli animali, ma sono finora pochi. Ora che gli studii del de Vries hanno richiamata l’attenzione sul fatto e ne hanno dimostrata l’importanza, può ben darsi che scoperte di altri casi avverranno. Molti fenomeni, pure frequenti, sono per molto tempo passati inosservati finché qualcuno non li ha messi in evidenza. [p. 258 modifica]

Ma possiamo anche aspettarci a che la mutazione sia un fenomeno che avvenga a rari intervalli. Forse nella storia della specie, come suppone il de Vries, intervengono ogni tanto dei periodi di mutazioni che si alternano con periodi d’immutabilità. Comunque sia, i pochi casi accertati bastano a stabilire l’esistenza del processo.

La teoria della mutazione non è, come osserva il suo fondatore, in opposizione col principio della selezione. Le mutazioni possono essere vantaggiose o nocive: soltanto quelle compatibili con le condizioni di vita del momento si continueranno per molte generazioni; le altre sono destinate a scomparire.

Così una selezione accade, sebbene non nel senso darwiniano, ma piuttosto secondo le idee del Pfeffer e del Heincke.

Ma la trasformazione della specie per mutazioni non presuppone necessariamente l’azione dell’ambiente come la selezione negativa ammessa dai due autori su citati; essa sembra essere piuttosto una funzione di fattori interni, che possono benissimo supporsi indipendenti dalle azioni esterne, e può conciliarsi anche con la variazione secondo linee determinate sostenuta da alcuni naturalisti. Tuttavia non mi sembra assolutamente esclusa la possibilità d’un’azione del mondo esterno sugli organismi come causa determinante delle mutazioni stesse.

Sebbene, per ora, noi ignoriamo completamente quali sieno le cause o le condizioni, cui si debbano le mutazioni, abbiamo in queste un mezzo molto più adeguato per spiegarci l’origine delle specie. Grazie alla teoria delle mutazioni e alle leggi della variabilità, il nostro concetto dei gruppi naturali elementari acquista una determinazione, che finora esso non aveva. La fissità e la variabilità della specie non sono più inconciliabili, e la reale esistenza della specie ci vien dimostrata in maniera sempre più sicura ed evidente.

Un altro ordine di fatti ci conduce a conchiusioni simili. Le differenze morfologiche degli esseri viventi corrispondono a differenze fisiologiche e, probabilmente, in ultima analisi, a differenze del chimismo. Sebbene la materia vivente ci presenti un certo numero di proprietà fondamentali comuni che si ritrovano in tutti gli organismi; e sembri, a prima giunta, che nei processi vitali vi sia una grande uniformità in tutto [p. 259 modifica]il mondo dei viventi, cui si contrappone la grande variabilità delle forme: un esame anche superficiale ci dimostra l’esistenza di differenze nette e profonde nel modo di comportarsi e nella costituzione chimica di due esseri, che sono diversi nella loro forma. E le differenze fisiologiche e quelle della composizione chimica ci si rivelano talora con una nettezza anche maggiore di quelle delle forme. Basti pensare al diverso sapore, alla diversa fragranza per dir meglio, di due frutta appartenenti a varietà diverso d’una medesima specie; ai diversi odori delle secrezioni di due uomini anche se sieno della stessa famiglia. Si consideri anche il fatto notevole, che in molti animali il maschio riconosce la femmina dall’odore; è nota la squisitezza di questa reazione in alcuni insetti. Si pensi ancora che nel mare vivono spesso l’una accanto all’altra specie affini, i cui prodotti sessuali vengono emessi nell’acqua dove avviene la fecondazione, e che, sebbene si trovino spesso così mischiate ova e sperma di varie specie, tuttavia la fecondazione accade di regola soltanto fra ova e sperma della stessa specie11.

Un altro fenomeno, che devo senza dubbio riconoscere la sua causa in fattori chimici, è il rapporto strettissimo fra parassiti e ospiti; così pure le reazioni particolari che ogni specie di parassita determina nell’ospite. Noi sappiamo che certe specie di parassiti non vivono se non in un dato ospite, così le varie specie di tenie, p. es.; i batterii patogeni producono negli organismi, che essi invadono, processi patologici diversissimi secondo la loro specie. Dal quadro clinico d’una malattia infettiva può spesso dedursi con sicurezza assoluta ch’essa è dovuta alla presenza d’una data specie di microrganismo.

Tutti questi fatti ed altri ancora dello stesso genere, che qui sarebbe troppo lungo citare, dimostrano l’esistenza di sostanze specifiche ben determinate, le quali sono probabilmente la causa ultima del diverso modo di essere e di reagire degli organismi appartenenti a specie diverse.

E se siamo ancora ben lontani dal conoscere in che cosa consistano, in ciascun caso, queste differenze del chimismo, di [p. 260 modifica]cui vediamo soltanto gli effetti, già abbiamo alcuni dati sperimentali precisi che mettono chiaramente in evidenza le proprietà specifiche di natura chimica degli esseri viventi.

Fra i varii risultati finora ottenuti, basti qui ricordare quelli forniti dall’analisi delle proprietà specifiche dei sangue.

Il Landois, già fin dal 1875, fece la interessantissima scoperta che il sangue di un animale, iniettato nel circolo d’un animale di specie diversa riesce tossico, e che la trasfusione del sangue di altri mammiferi all’uomo non può praticarsi impunemente. Egli assodò che il sangue estraneo distrugge i corpuscoli rossi del sangue dell’animale in cui viene iniettato; e giunse anche a questa notevole conchiusione, che «gli animali che più sono vicini per le loro qualità anatomiche posseggono anche sangui più omogenei fra di loro; e l’azione d’un sangue su un altro è tanto più nociva quanto più gli animali differiscono zoologicamente». L’azione d’un sangue su un altro si manifesta col diffondersi dell’emoglobina nel plasma (emolisi) e col divenir quindi pallidi e spettrali, come suol dirsi, i globuli rossi. Ulteriori ricerche hanno condotto alla conferma e alla generalizzazione delle osservazioni del Landois, cui altre se ne sono aggiunte.

Il Bordet aveva trovato che se il siero di sangue d’una specie diversa era iniettato ripetutamente nel sangue d’un coniglio, il siero del coniglio acquistava la proprietà di produrre un precipitato quando veniva mescolato col sangue di quella data specie. Questi esperimenti, ripetuti su vasta scala, specialmente dal Friedenthal, dal Gruenbaum, dal Nuttall e da altri, dimostrarono che il siero del sangue d’un animale di specie A, cui sia stato iniettato a dosi ripetute del sangue d’un animale d’un’altra specie B (che non abbia, naturalmente, un potere molto tossico per la prima), acquista la proprietà di produrre, quando vien mescolato col sangue della seconda, tre reazioni caratteristiche: 1° formazione d’un precipitato nel siero; 2° agglutinazione dei corpuscoli rossi ilei sangue saggiato; 3° successiva emolisi. Queste proprietà acquistate dal siero della specie A sono dovute a 3 particolari categorie di corpi che vi si formano, i quali si sono potuti isolare: precipitine, agglutinine, emolisine.

Le suddette reazioni non accadono col sangue di altre specie non affini alla specie B: accadono però, sebbene con minore intensità, col sangue di una specie affine alla B. [p. 261 modifica]

Mediante iniezioni di sangue di cane nel coniglio, il Nuttall ottenne un siero che dava precipitati col sangue di otto varie specie di canidi, ma non con quello di altri animali.

Si è, con lo stesso procedimento, ottenuto un siero emolitico e precipitante pel sangue umano, il quale reagisce anche col sangue delle scimmie Antropoidi; meno intensamente con quello delle scimmie del nuovo mondo, e non dà reazione col sangue delle scimmie della famiglia Hapalidae, che, per altri caratteri, è da considerarsi come ancora meno affine alle Antropoidi.

Non sempre, è vero, siffatte reazioni sono così precise da poter essere considerate come strettamente specifiche; ma esse bastano a dimostrarci l’esistenza di differenze nel comportamento chimico dei varii protoplasmi viventi le quali corrispondono, fino a un certo punto almeno, alle differenze morfologiche. Questi esperimenti ci mettono sulla via di spiegare la diversa facilità delle fecondazioni incrociate e degli innesti fra specie o varietà diverse.

Così a poco a poco si rischiarano anche i misteriosi fenomeni dell’eredità. I caratteri ereditarli si possono forse spiegare, come propone il Loeb, con la trasmissione di particolari sostanze, le quali hanno proprietà fisico-chimiche caratteristiche della specie.

Gli elementi germinali conterrebbero queste sostanze, che formeranno naturalmente il fondamento di tutti i caratteri dell’organismo che da essi si origina. In queste sostanze può forse ammettersi che risiedano le condizioni necessarie perchè si determini la forma e si manifestino i processi vitali proprii d’una data specie.

Le reazioni degli organismi viventi, esaminate nei casi più semplici, si possono per buona parte spiegare con l’ammettere appunto la presenza di particolari sostanze le quali reagiscono in una data maniera sotto l’azione degli stimoli che pervengono dal mondo esterno.

I tropismi, cioè quei movimenti che fanno dirigere molte piante e molti animali inferiori (tutti i protozoi, p. es.) in un senso o in un altro sotto l’azione d’una data forma d’energia (gravità, luce, calore, elettricità, energia chimica), possono ritenersi originati dalla presenza di sostanze le quali vengono più o meno direttamente modificate da quelle energie. La differenza dei tropismi riconoscerebbe per tal presupposto la [p. 262 modifica]sua causa nella differenza delle sostanze specifiche ereditarie. Forse anche i riflessi e gl’istinti, anche i più complicati, trovano così una spiegazione semplice e adeguata; e l’etologia propria di una specie, il suo modo di comportarsi verso il mondo esterno, cioè, le sue abitudini, la sua «psicologia» risulta essere, in ultima analisi, una funzione delle particolari sostanze chimiche che costituiscono il suo protoplasma specifico.

Siamo purtroppo ancora ben lontani dal potere, sia pure provvisoriamente, formulare una ipotesi fisico-chimica della eredità e delle affinità naturali in termini che abbiano un preciso significato scientifico e dobbiamo contentarci per ora di induzioni molto vaghe e indeterminate: ma ci è forse lecito sperare col Loeb nella possibilità d’una spiegazione di tal genere12.

Da questa sommaria rassegna che abbiamo fatta della evoluzione del concetto di specie nelle scienze biologiche risultano, io credo, chiaramente ancora una volta gl’inconvenienti tanto dei dogmi, che delle generalizzazioni di troppo affrettate ipotesi; e il grande vantaggio che l’applicazione d’un rigoroso metodo analitico e sperimentale ha pel progresso della scienza, o, ciò che in fondo è lo stesso, per la precisa e chiara determinazione dei nostri concetti. Nè le affermazioni aprioristiche della scuola Linneana, nè quelle della scuola Darwiniana, le quali, se parvero desunte dalla osservazione dei fatti, furono in realtà frutto d’un’ipotesi, che i fatti stessi induceva a guardare da un punto di vista falso, ebbero il potere di renderci più chiaro e più preciso il concetto della specie biologica; anzi, si può dire che le une e le altre riuscirono soltanto a una artificiosa interpretazione dei fatti naturali, la quale spesso non fu un progresso sull’empirismo volgare.

Il primo fattore di vero progresso nei problemi della specie fu l’opera in parte inconsapevole degli allevatori e degli orticultori. E credo che il de Vries abbia pienamente ragione nel fare omaggio al genio del Darwin, che seppe intuire [p. 263 modifica]l’importanza di quell’opera e la fece servire di fondamento alla sua dottrina della selezione naturale.

Se il Darwin sbagliò, non fu già nel tentativo di parificare l’opera della natura con quella dell’uomo, ma nella falsa interpretazione dell’azione della selezione artificiale. Ma questo errore era forse inevitabile dato lo stato delle conoscenze che si avevano ai suoi tempi intorno alle leggi della variazione.

Fu l’analisi di queste leggi, fatta col metodo rigoroso introdotto dall’Antropometria, che precisò il concetto di variabilità e al tempo stesso permise al Heincke, come vedemmo, di determinare quello dei piccoli gruppi naturali (le specie elementari del de Vries).

A questo metodo analitico comparativo il de Vries ha aggiunto l’analisi sperimentale, che gli ha permesso di servirsi del fenomeno della mutazione per stabilire un criterio sicuro per distinguere le specie elementari dalle varietà: criterio che finora mancava alla scienza.

La prova sperimentale della chimica fisiologica viene dal canto suo, per altre vie, a portare il suo contributo al problema della specie e delle affinità fra gli esseri viventi in generale.

E da questi tre ordini di fatti mi par che saltino fuori nuovi argomenti e molto più validi, a favore della tanto discussa realtà della specie, realtà di carattere, io credo, essenzialmente non diverso da quella dell’individuo e da quella di un qualsiasi altro gruppo naturale13. Sbaglierebbe chi credesse [p. 264 modifica]che oggi i problemi della specie si debbano considerare come definitivamente risoluti, ma si può affermare senza esitazione che essi sono entrati, in quest’ultimo decennio, in una fase nuova che fa concepire giustificate speranze di più complete soluzioni.

Università di Palermo.


Note

  1. Pur non potendo, data l’indole e i limiti di questo articolo, abbondare in citazioni e analisi di lavori, voglio qui rilevare come in Italia il problema della variabilità sia stato ampiamento trattato dal Camerano nel suo pregevole lavoro Ricerche intorno alla variazione del Bufo vulgaris (in Mem. R. Accad. di Torino, serie II, Vol. L) nel quale si trova un’interessante discussione intorno al concetto di specie. Un passo di questa è anche riportato nell’opuscolo già citato del Belli.
  2. Anche l’Agassiz, è interessante rilevar questa coincidenza, sostenne esser le specie di natura non diversa degli altri gruppi sistematici d’ordine superiore; ma egli considerava invece tutti questi gruppi, la specie inclusa, come entità ideali, riconoscendo, come già vedemmo, una esistenza reale soltanto negl’individui. La diversa concezione del Heincke non è forse figlia delle dottrine evoluzionistiche, che l’opera del Darwin aveva diffuse? E se Heincke, antidarwinista convinto, concepisce in tal modo la sistematica, non lo si deve forse un poco alla «funesta» influenza del darwinismo, di quella «malattia inglese», come la chiama il Dreyer, il cui contagio, tutto sommato, credo che abbia fatto più bene, che male?
  3. Die Umwandlung der Arten etc. Verhandlung. d. Naturwissensch. Verein, Hamburg 1894.
  4. Godron. De l’Espèce etc.
  5. Die Mutationstheorie, Leipzig, Veit e C.°, Vol. I, 1901 (Die Entstehung der Arten durch Mutation) e Vol. II, 1903 (Elementare Bastardlehre). Cfr. anche: Species and Varieties, their origin by Mutation. Open Court Publish. C.°, Chicago 1905. Una traduzione tedesca fatta dal Klebahn è stata pubblicata nel 1906 a Berlino, edit. Geb. Borntraeger.
  6. In botanica l’esistenza delle specie elementari immutabili e la loro «realtà» era stata sostenuta dal Jordan e anche dal Godron. Per più ampie informazioni si confrontino le opere già citato del de Vries e del Belli.
  7. Mutationstheorie, vol. I, p. 83.
  8. Potrà utilmente consultarsi in proposito l’articolo di E. G. Conklin. The Mutation theory from the standpoint of eytology, in Science, 1905; ivi, pag. 521-540, sono, con questo, altri cinque articoli intorno alla Teoria della mutazione. Si vegga anche il recente articolo di O. Lévy, Sull’Eredità, nelle Ergebnisse der Physiologie, Anno V, Wiesbaden, I. F. Bergmann, 1906.
  9. Mutationstheorie II, p. 644.
  10. Anche su questo punto si confronti l’art. citato del Lévy.
  11. Una prova che si tratti qui di fatti dovuti alla costituzione chimica degli elementi germinali ci è forse data dagli esperimenti del Loeb intorno alla fecondazione incrociata fra ova di echini e sperma di stelle di mare, resa possibile dall’aggiunta di tracce d’idrato di sodio nell’acqua. (V. Loeb - Dynamics of Living Matter, cap. «Fecondazione», p. 162).
  12. Per formarsi un’idea dello stato delle nostre conoscenze sui fattori chimici dell’eredità, si potrà consultare con profitto l’articolo del Burian: Chemie der Spermatozoen nelle Ergebnisse d. Physiologie, anno V, 1906, nel quale si troverà uno speciale capitolo sui «Risultati della chimica degli spermatozoi e i problemi della fecondazione e dell’eredità».
  13. Nel suo lavoro sulla Peneroplis il Dreyer dall’esame della variabilità dei gusci di questa Foraminifera è condotto a negare l’esistenza di forme specifiche. Egli ha esaminati 25000 esemplari di quella «specie», trovandovi forme diversissime collegate fra di loro in maniera da formare serie ininterrotte di graduali insensibili passaggi fra due forme estreme. Prescindendo dalla considerazione, che questo solo esempio, tratto da un Rizopodo, da un essere, per sua natura soggetto a una grande variabilità, non aiuta a demolire i fatti che ci presentano la enorme quantità di piante e animali a forme specifiche costanti; io trovo le conclusioni del Dreyer discutibili anche nel caso della Peneroplis pertusus da lui esaminato. Il Dreyer non ci dice quale sia la frequenza di certe forme rispetto a certe altre; egli non sembra essersi punto preoccupato della necessità dell’applicazione del metodo statistico, che qui era, a mio credere, assolutamente indispensabile per conoscere le leggi di questa variabilità; egli non discute poi i casi anomali da rigettarsi. È vero, come dice il Dreyer, che i fatti teratologici e patologici rientrano anche nelle leggi naturali e debbono esser presi nella debita considerazione; ma non è esatto che non si possano trovare criterii per stabilire ciò che è normale per una data specie, e a ciò appunto servono i metodi statistici nell’analisi della variabilità fluttuante. Che ci siano uomini con 6 dita è certamente un fatto naturale, che avrà le sue leggi; ma ciò non diminuisce punto il valore della legge naturale che la specie umana ha cinque dita.