Satire di Tito Petronio Arbitro/3

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Capitolo terzo - Giurisdizione violata e diverbj

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Petronio Arbitro - Satire (I secolo)
Traduzione dal latino di Vincenzo Lancetti (1863)
Capitolo terzo - Giurisdizione violata e diverbj
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CAPITOLO TERZO

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giurisdizione violata, e diverbj.



Come ebbi corsa mezza la città, mi abbattei in Gitone, il qual vidi trammezzo alla nebbia star sull’angolo della strada presso la porta dell’alloggio, dove entrai tostamente. Chiestogli cosa ci avesse il mio camerata preparato da pranzo, il ragazzo si gittò sul letto, asciugandosi col pollice le dirotte sue lagrime. Io commosso a tal vista il richiesi di ciò che gli fosse avvenuto, ed egli, tardi veramente, e quasi per forza dopo aver io mischiate le minacce alle preci, così mi disse: codesto tuo, o camerata, o fratel ch’egli sia, arrivatosi a casa poco prima di te mi si mise intorno per violare il pudor mio, e avendo io cacciato dei strilli, e’ cavò la spada, e mi disse: se tu sei Lucrezia, hai pur trovato un Tarquinio.

In ascoltar questo fatto io balzai agli occhi di Ascilto dicendogli: Or che rispondi tu, o infamia de’ prostituti, che nulla hai di puro, nemmanco il fiato?

[p. 10 modifica] Ascilto mostrò d’infuriarsi, e con gesti più vibrati, e con voce maggior della mia, nè ti stai, zitto, mi disse, o gladiator da bordello, rifiuto de’ trabocchetti dell’anfiteatro,1 ne’ quali uccisor del tuo ospite dovevi cadere? Nè ti stai zitto, o assalitore notturno, impotente a più combattere con donna di garbo, sebben c’impiegassi ogni tua forza? A cui mi son io nell’orto prestato per quell’uso medesimo, al qual poc’anzi qui nell’albergo fei servir quel ragazzo?

Per ciò adunque, io soggiunsi, ti sottraesti ai discorsi del maestro?

Ed egli: che doveva io fare colà, o bagordo, poi che io mi morìa di fame? Avre’ io dato retta a chiacchere più inutili de’ rottami del vetro, delle spiegazioni dei sogni? Tu sì, per dio, sei più vile di me, che per buscarti una cena hai lodato un poeta. E tra questi vituperj scoppiammo a ridere, e tranquillamente passammo ad altre cose.

Io poi non sapendomi dar pace dell’affronto, così gli dissi: ben, vedi, Ascilto, che noi non potiamo accordarci più insieme: dividiamoci adunque il nostro comun fardelletto, e cerchiamo di guadagnarci il vitto ciascun di noi separatamente. Tu se’ letterato, ed io per non pregiudicare ai tuoi vantaggi eserciterò qualche altra cosa: altrimenti noi avremo ogni dì mille discordie, e farem parlarne tutto il paese.

Ascilto accettò la proposizione: oggi però, disse egli, siccome in qualità di scolari abbiamo promesso d’intervenire ad una cena, non perdiam l’allegria di questa notte: dimani poi, giacchè sì ti piace, troverommi un altro alloggio, e un altro Gitone.

Io risposi che non bisognava differire una cosa quando la si è risolta. Ad un separamento sì precipitoso mi stimolava il piacer mio, ed era gran tempo che io desiderava allontanarmi una guardia importuna, onde rinnovare col mio Gitone gli antichi dritti.

[p. 11 modifica] Mal soffrendo Ascilto una tal villania, bruscamente senza dir nulla sortì. Questa sì improvvisa partenza male mi presagì, perchè io conosceva la violenza dell’animo suo, e lo sregolato suo amor per Gitone. Perciò gli tenni dietro, onde osservar che facesse, e poterglimi opporre: ma egli mi sfuggì dagli occhi, e indarno lungo tempo di poi lo andai cercando.

Dopo scorsa tutta la città rivenni all’alloggio, dove finalmente tra i più ingenui baci mi annodai con strettissimi abbracciamenti al fanciullo, e ne presi invidiabil solazzo. Nè tutto ancora compiuto era, quando Ascilto furtivamente avvicinandosi all’uscio, poi spalancatolo con grandissimo impeto, trovommi in quella scherzevole positura. Perlocchè empiendo la stanza di risate e di batter di mani, e strappando il lenzuolo, che ne copria, che fai tu, mi disse, o fratel modestissimo? Perchè sotto una sola coltre ambidue? Nè restossene alle parole soltanto, ma sciolta la cigna della sua bisaccia diessi a staffilarne robustamente, dicendo al tempo stesso con molta insolenza: impara ora a rifiutarmi la comunanza.

La inaspettata sorpresa mi costrinse a dissimulare l’ingiuria e le sferzate: presi dunque il partito di riderne, e fu cosa prudente, altrimenti avrei dovuto battermi col rivale. Da questa finta ilarità la collera fu sedata, sicchè egli pure ne rise, e dissemi poi: tu, Encolpo, immerso nelle delizie, non pensi che manchiam di denaro, e che le suppellettili che ci rimangono non hanno nessun valore. A questi giorni estivi la città non produce nulla, e la campagna sarà più allegra: andiamo a trovarvi gli amici.



Note

  1. [p. 289 modifica]Avvertono alcuni commentatori, che un gladiatore [p. 290 modifica]condannato a morire, era mandato a combattere sopra un tavolato eretto nell’arena, il quale spalancavasi improvvisamente, gittando il reo in bocca ai leoni, che vi eran sotto appiattati.