Scola della Patienza/Parte prima/Capitolo II

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CAP. II.

Per qual cagione i Discepoli in questa Scuola siano così duramente, e aspramente trattati.


M
Oltissime cose sono che col moto, e con l’agitatione si conservano, che senza quelle si perderiano: Il frumento, se spesso non si ventila, si guasta; e spesse volte stando fermo si perde: li vestimenti, che stanno sempre condennati nelle casse, son mangiati dalle tignole. Il ferro, se non s’adopra, è consumato dalla rugine, e perde la forza. Le Viti se non si potano, degenerano in bosco. L’Uva, se non si calcha nel torchio, si marcisce. E molte altre cose simili noi le capimo benissimo, e l’esperienza d’ogni giorno ce ne fà amplissima fede. Nondimeno ci maravigliamo, e sentiamo assai, che gl’huomini siano esercitati, e travagliati [p. 36 modifica]da Dio con tante, e si varie calamità, e miserie. Habbiamo detto nel primo capitolo esser necessario, che così si faccia: Hora diremo, che ciò si fà benissimo.

Horat. lib. 2. serm. 3.


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§. 1.


M
Oltissime ragioni si possono assegnare, perche Dio habbia determinato di trasferire i suoi in Paradiso, non dal Paradiso, mà dalla Croce. Mà in questo luogo piglio per testimonio quello, che communemente frà gl’huomini si costuma. Se alcuno non piglia in odio una Casa poco honesta, con tutto, che vi sia bastonato, ò anco buttato per le scale; molto meno la fuggirà, quando vi sia ricevuto volentieri, e ben trattato. Così apunto, se noi stessimo in questo mondo con un poco più di gusto, à pena si trovaria uno, che desiderasse le delitie del Cielo. Ogn’uno diria: io stò bene, che voglio più andar

[p. 37 modifica]cercando piaceri incerti? Qui si trovariano i sentimenti di moltissimi, che imbriacati dalle proprie ricchezze, e piaceri, verria loro à nausea il Cielo; e sariano à guisa de’ Bovi, che saturi d’herba ivi si colcano ove si pascono. Perciò fù di mestieri mescolare ogni cosa di fiele, accioche il mele del mondo non fusse tenuto per somme delitie. Per qual cagione di grazia, gl’Hebrei provarono l’Egitto per tanto nemico? Poiche quei Prefetti, e soprastanti erano crudelissimi, le fatiche duplicate, le bastonate continue, e di più doveano esser loro uccisi i proprij figliuoli. Che cosa pretese Iddio con queste cose? Non pretese altro se non generare un grandissimo tedio, e odio dell’Egitto, e di tutta quanta l’Idolatria nel cuore de i suoi. Qua battevano le continue esortationi, che faceva lor Moisè à desiderare quelle fertilissime ter[p. 38 modifica]re promesse loro da Dio. Perciò fu permesso à Faraone l’incrudelire tanto contra di loro, accioche il popolo Hebreo per l’odio, che portava à così fiero Tiranno, si andasse cercando un’altra Patria.

Disse bene S. Gregorio: Pio Dei consilio agitur, ut huius peregrinationis tempore, Electorum vita turbetur. Via est vita praesens, qua ad Patriam tendimus. Idcirco hic occulto iudicio frequenti conturbartione conterimur, ne viam pro Patria diligamus. 1 Occorre per pietoso consiglio di Dio, che la vita dei giusti sia travagliata nel tempo di questa peregrinatione. Poiche la vita presente è una via per la quale ce ne andiamo verso il Cielo: E perciò qui siamo molestati con continui travagli acciò chè in cambio della Patria non mettiamo il nostro amore nella via. Il viandante, [p. 39 modifica]massime quando è lento, e pigro facilmente si và trattenendo per i prati ameni sotto l’ombra de gli arbori, e per le selve ombrose. Si và trattenendo un poco quà, e un poco là; hora si mette à sedere quì, hora lì, finche perde tutta la giornata. E perciò S. Gregorio aggiunge. Electis ergo suis ad se pergentibus Dominus huius mundi iter asperum facit, ne dum quisque praesentis vitae requie, quasi amenitate vitae pascitur, magis eum diu pergere, quàm citius pervenire delectet: ne dum oblectatur in via, obliviscatur quod desiderabat in Patria. 2 Rende dunque l’Iddio agli eletti suoi aspro, e malagevole il viaggio di questo mondo, acciocchè mentre ognuno si va pascendo, e godendo del riposo della presente vita, come di una strada bella, e amena, non gli sia più à cuore il trattenersi per strada, che arrivar presto alla Patria; e [p. 40 modifica]mentre si và pigliando spasso per la via, si scordi di quello, che desiderava nella Patria.

E si come eccita mirabilmente il divino amore, l’haver talvolta gustato, ancorche poco, quanto sia suave il Signore; Così ancora l’haver provato qualche poco, quanta sia l’amarezza delle cose caduche, ci spingerà grandemente ad odiarle. E questo è quello, che fà l’afflittione; ci dà ad assaggiare l’amarezze del mondo, e ci mette sotto i piedi le sue spine, per sforzarci à caminar più presto. Disse elegantemente Sant’Agostino: O infelicias generis humani! amarus est mundus, et diligitur; putas, si dulcis esset, qualiter amaretur? 3 O infelicità del genere umano! Il mondo è amaro, e si ama; pensa se fosse dolce: come si amaria? Si turba, e con tutto ciò è amato; che cosa saria se fosse quieto, e tranquillo? Come ti [p. 41 modifica]coglieresti tù i fiori del mondo, già che si avidamente porgi le mano alle spine? Il medesimo S. Gio. Chrisostomo mentre dice: Si cum nos undique tristia circumeunt, tam libenter praesenti vitae immoramur: si nihil horum esset, quando unquam futura desideraremus? 4 Se quando d’ogni intorno ci assediano le miserie, stiamo si volontieri in questa vita; se non vi fusse alcuna di queste cose quando mai desideraremmo le cose future? Siamo tanto acciecati dall’amor proprio, che in cambio della sanità amiamo la medicina, in cambio del termine la vita, e in cambio del Creatore le creature. E quindi è, che Dio è forzato à mandarci più amare bevande, perche noi non beviamo la Posca, e l’assenzio in cambio di nettare, ne anteponiamo la terra al Cielo.

Note

  1. [p. 63 modifica]Greg. lib. 22. mor. cap. 25. post [p. 64 modifica]med
  2. [p. 64 modifica]Greg ubi sup.
  3. [p. 64 modifica]Aug. to. 10. ser. iii. de temp. circa med.
  4. [p. 64 modifica]Chrisostom. 6ad Popul. Antioch.

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§. 2


L
A bocca d’oro S. Gio. Chrisostomo, che pur hora nominai, prova eccellentissimamente con dieci ragioni, esser cosa molto utile, e profittevole l’esser afflitto, e travagliato. Nel che si ha d’andar in questo luogo considerando à bell’agio, che dall’Intelletto humano non si capisce, ne si conosce, ne anche una minima ombra della Maestà divina. Noi, quando pensiamo à Dio c’imaginiamo i Regi, e Imperatori. Ah come sono vili, bassi, e puerili i nostri più sublimi pensieri? E di qui nascono varij errori. E’ voce della Sapienza quella: Deus tentavit eos, et invenit eos dignos se. 1 Iddio li provò, e li trovò degni di se. E’ così alta, e immensa la Maestà di Dio, che niuno può essere fatto

[p. 43 modifica]degno di vederlo, se non chi sia stato travagliatissimo da varie calamità; a guisa d’un generoso, e forte athleta, à cui non si deve il premio se non dopò la pugna. A proposito di ciò disse Niceta Choniate: Is solum miser est, qui in afflictione constitutus nimium tristatur, et Deo non se dignum praebet. 2 Quegli solamente è misero, che essendo travagliato, troppo s’attrista, e non si rende degno di Dio.

Isac divenuto già del tutto cieco per la vecchiezza, per far col tatto pruova se quel, che gli parlava era il figliuolo, gli disse: Accede ad me, ut tangam te fili mi, et probem utrum tu sis filius meus. 3 Accostatimi un poco, figliuol mio, accioche io ti tocchi, e faccia prova se tu sei il mio figliuolo. Così fa Dio: io t’ho da toccare figlio mio: E vero che hò le mano calde, che abbruggiano, ma se tu [p. 44 modifica]sei mio figliuolo, ti lassarai toccare. Chi non si vuole scottare, non è mio, ed è di me indegno. Io lasciai mettere in Croce il mio Unigenito figliuolo, e lo trovai degno di me; ne troppo più dolcemente mi portai con la Vergine sua madre nel cui petto ficcai un coltello di dolore, che dovea durare molti anni, e la trovai degna di me; nè fin’hora hò trattato altrimente quei, che più d’ogni altro mi sono stati amici, e li trovai degni di me. Hora perche vuoi, esimerti tù da questo numero, ed essere singolare? Se una volta ti esimi dal supplicio de i flagelli sei cancellato dal numero de i figli: Di questa maniera io essercito i miei figliuoli, e così essercitandoli li honoro. Certo che Giuseppe fù più ricco, e honorato nel suo esilio, che nella casa paterna. Ezechiele nel mezo della cattività fù con celesti visioni rallegrato. Quei trè Giova[p. 45 modifica]netti Hebrei non stettero mai meglio, nè più delitiosamente,, che in quella fornace ardente: ne occorse mai loro cosa più honorata, che haver per compagno in quelle fiamme un’Angelo in forma visibile. Qual si voglia dunque, che vuol’esser contato tra i figliuoli di Dio, si mostri tale con queste generose voci. Dica pure intrepidamente: io sono afflitto, mà ciò sopporto pazientemente; stà bene: sono cruciato, mà volontieri per Christo; sono oppresso da calunnie, e false accuse, mà per Dio le sopporto allegramente: Benissimo: sono legato e arso, mà per il Cielo sopporto ogni cosa con fortezza; e devo desiderare, non che il fuoco non mi arda, mà si bene che non mi vinca. Voglio più tosto che Dio mi tenga nel suo campo co’ i suoi soldati in questa vita, che starmene in delitie. Perche sò molto bene, che ’l vitello, [p. 46 modifica]che s’hà da uccidere, si lascia andare al pascolo libero, e sciolto; e quello che si hà da conservare, si pone al giogo. Castigans castigabit me Dominus, et morti non tradet me. 4 Cercarà bene il mio Signore di castigarmi, e mi castigarà, mà non mi farà morire. Il sentire, e parlare à questo modo, è cosa veramente degna d’un soldato Christiano.

Note

  1. [p. 68 modifica]Sap. c. 3.5.
  2. [p. 68 modifica]Nicet Choniat.
  3. [p. 68 modifica]Gen. cap. 27.25.
  4. Ps. 117. 18.

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§. 3.


E
Per intender meglio queste cose, andiamo di gratia discorrendo à questo modo. Il fuoco, ch’è il più alto, e sublime fra gl’Elementi, e tanto nobile, ed efficace, che tutto quello, che se gli para inanzi, abbrugia, e consuma; converte in cenere il panno, il corame, la legna, e anche l’istesse felci; come se dicesse: Io son tanto generoso di mia natura che non [p. 47 modifica]e non mi degno di ricevere nel mio seno queste cose basse, e vili, perchè non le trovo degne di me; mà vengano i più nobili metalli, l’argento, e l’oro. A questi io non fo danno alcuno, questi mi contento di ricevere nel mio seno, questi purgo, e rendo più belli; poichè trovo, che questi sono degni di me. Ed è possibile, che il fuoco sia così eminente fra tutte le altre creature, che non si degna di ammettere alla sua conversatione se non quelle cose, che sono più di ogni altre di lui degne? Che diremo dunque di Dio? Malachia tutto pieno di maraviglia disse: Quis poterit cogitare diem adventus eius, et quis stabit ad videndum eum? ipse enim quasi argentum, et sedebit conflans, et colabit eos quasi aurum, et quasi argentum. 1 Chi potrà pensare al giorno della sua venuta? E chi lo potrà stare à vedere? Percioche [p. 48 modifica]egli sarà come un fuoco, che squaglia se purga l’argento, e mettendosi à sedere li colarà à guisa d’oro, e d’argento. Dice: Sedebit conflans, perche non farà ciò leggiermente, e alla sfuggita, mà di proposito, e con grande accuratezza, ritornerà l’oro, e l’argento nella lor prima bellezza: cioè farà prova di essi, e li troverà degni di se.

E tutto questo Dio per trè fini. Percioche ò lo fa per castigare, e punire quei, ch’esso afflige, ò fà per corregerli; e emendarli, ò finalmente, per remunerarli, e dar loro il premio, e la corona cha hanno meritato. E primieramente, che maraviglia è, che noi siamo da Dio ogni giorno puniti, e castigati? Noi pecchiamo ogni giorno, poichè Septies in die cadet iustus. 2 Il Giusto caderà sette volte il giorno. Nel, che Iddio và imitando l’industria de gl’huomini, i quali quando non vogliono far debiti, [p. 49 modifica]pagano ogni cosa à dinari contanti. Così Dio purga, e castiga le nostre colpe con le quotidiane miserie, che ci manda. E questo è un gran favore, ch’egli fa. Perche Dum iudicamur à Domino corripimur, ut non cum hoc mundo damnemur. 3 Mentre siamo giudicati, siamo castigati da Dio, per non essere dannati con questo mondo, e il Real Profeta David dice: Priusquam humiliarer ego deliqui. 4 Prima ch’io fussi castigato, havevo peccato. Dov’è la colpa, ivi è la pena.

L’altro fine di Dio è che con l’afflittione ci ammaestra, e ci corregge. Il conoscer se stesso, e il suo poco capitale è cosa di grandissima felicità. Hor questa notitia, e questa cognitione ci vien’insegnata comodissimamente dalle Avversità. S. Gregorio dice chiaramente. Dum exterius percutimur, ad peccatorum nostrorum [p. 50 modifica]memoriam taciti afflictique revocamur; et per hoc, quod foris patimur, magis intus, quod fecimus dolemus. 5. Mentre siamo percossi di fuori, siamo tacitamente benche afflitti, richiamati à ricordarci de’ nostri peccati: e per questo, che patiamo di fuori, ci dogliamo più di dentro di ciò, che habbiamo fatto. Quel gigante di Golia morì in quel duello gettato à terra da un picciol sasso solamente perche si credeva invincibile. Pietro animosissimo per le promesse diceva di essere apparecchiato di patire prigioni e morte per il suo Signore. Vieni dunque un poco qua ò Pietro mio, e fa la sentinella per mezz’horetta. Ah che brava sentinella! Appena il Capitano s’era partito, che questo buon soldato cominciò à dormire. Oh brava sentinella! Dorme in guardia, poi se ne fugge, e abandona il posto, alla voce d’una vile ancella getta l’arme, e nega [p. 51 modifica]d’essere soldato del preso Capitano. Ma Pietro a questo modo imparò à conoscersi; dicendo S. Agostino: Profectus noster per tentationem fit, nec quisquam sibi innotescit, nisi tentatus. 6 Il nostro profitto si fà per mezo della tentatione, ne vi è alcuno, che si conosca bene, se non è tentato. Chi saperia mai, che il fuoco stesse nascosto nelle vene d’un sasso se non lo percuotesse con l’acciaio?

Finalmente Iddio ci corona con l’affliggerci. Ciò osservando San Gregorio dice: Cum innoxius flagello atteritur ei per patientiam, meritorum summa cumulatur. Electorum anima nunc marcescit, quia in illa postmodum aeterna exultatione viridescit, modo eos laetitiae post sequuntur. 7 Quando un’innocente è travagliato, se gl’accrescono per la patienza i meriti. E l’anima de gl’eletti adesso si [p. 52 modifica]marcisce, perchè poi in quella eterna allegrezza tutta si rinverdisce: Adesso sono per loro i giorni dell’afflittione, perche poi seguono i giorni dell’allegrezza, e del contento. Questo stesso dice S. Giacomo: Beatus vir, qui suffert tentationem; quoniam cum probatus fuerit, accipiet coronam vitae. 8 Beato quell’huomo, che patientemente sopporta la tentatione; perche dopò d’esser stato provato, riceverà la Corona della vita. Ne però siamo afflitti solamente per apparecchiarci ai futuri premij; mà ancora l’istessa afflittione ci è spesse volte premio.

Giusto Lipsio, Sole del nostro secolo; e (quello, che si soleva dir di Plinio, Eruditionis facile Princeps) uno de i più eruditi huomini del nostro tempo; amò tanto le muse, e le belle lettere, che non solamente non dispregiò la pietà mà l’antepose à tutte le muse. Per lo [p. 53 modifica]spatio di più anni si confessò ogni otto giorni col P. Leonardo Lessio Theologo della nostra Compagnia di Gesù, e perseverò con gran costanza, e integrità sino al fine in questo suo modo di vivere, che fin dal principio s’havea preso. Che premio n’hebbe da Dio? Questo istesso, che noi chiamiamo supplitio. Hebbe Lipsio una delle più belle, e scelte librarie del suo tempo, dov’era il fiore di tutti i libri; Percioche tutto ciò, che di più rara, e bella letteratura havea potuto havere con prezzo, ò con preghiere da tutte quante le parti del mondo, l’havea posto in questa sua libraria. Et à questo modo un gran tesoro d’ottimi volumi, e de’ più bei libri, che si trovassero, da stimarsi più di qualsivoglia argento, e oro s’era ridotto in una casa. Ne fuor del Cielo, hebbe Lipsio cosa alcuna, che più amasse, e stimasse di queste sue littera[p. 54 modifica]rie delitie. Haveresti detto, che tutto il cuore di Lipsio stava profondissimamente sepolto in quella libreria. Hor tutto quello, che con grandissima cura in più anni, e con grandissimo studio si era radunato, tutto se lo portò via ad un tratto in una sol volta un’improvviso incendio. Ahi dolore! o per me credo, che Lipsio haverebbe voluto più tosto perder se stesso, che queste cose, che gli erano sopra d’ogn’altre care. Mà questo è il costume di Dio; questi son i premi, ch’egli dona, e con i quali rimunera la Virtù in questo mondo. E questo ancora si deve tenere per gran favore. A questo modo tratta Iddio con i suoi più cari amici: Percioche, ò leva loro quello, che tengono più d’ogni altra cosa caro, ò lor nega quello, che con innumerabili preghiere gli domandano. Si trova tal volta alcuno, il quale come volesse persuadere a [p. 55 modifica]Dio, che non gli levi quelle cose, ch’egli ama tanto; gli dice: O Signore io mi voglio affligere come voi volete; concedetemi solamente questa cosa sola, che vi dimando; ò pure non mi levate questa sol cosa, che io tanto amo. Mà Dio quì è sordo; leva, e toglie le cose più care, e non concede quelle, che più di ogn’altra si desiderano, e à questo modo afflige, e tormenta l’istesso cuore dell’huomo. E questa è una grazia, e un premio, che Dio ci dà. A questo modo l’Angelo consolò Tobia; dicendogli: Quia acceptus erat Deo, necesse fuit, ut tentatio probaret te. 9 Perche tu eri accetto à Dio, fù necessario, che la tentatione ti provasse, come se gl’havesse detto: Dove è la Virtù, ivi è il suo premio, ch’è l’afflittione. Et è sempre afflitto chiunque è caro à Dio.

Note

  1. [p. 77 modifica]Malach. cap. 3.2.
  2. [p. 77 modifica]Prover. c. 14. 16.
  3. [p. 77 modifica]2. Cor. 11.31
  4. [p. 77 modifica]Ps. [p. 78 modifica]118. 67.
  5. [p. 78 modifica]Greg. p. 3 Past. admon. 158. in fin.
  6. [p. 78 modifica]Aug. in Psal 60
  7. [p. 78 modifica]Greg. Praef. in Iob. c. 5. med. et l. 20 mor. c, 20. mor. c. 10. post. medi.
  8. [p. 78 modifica]Iacob. c. 1. 12.
  9. [p. 78 modifica]Tob. c. 12. 13.

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§. 4.


M
A Dio sovente manda le calamità, non per punir le colpe, nè per corregere chi pecca, ne per sollevar la Virtù, mà si bene per mostrare la sua potenza. Di quel cieco disse apertamente il Salvatore: Neque hic peccavit, nec parentes eius, sed ut manifestentur opera Dei in illo. 1 Ne questi hà peccato, ne i suoi Padri, mà ciò si è fatto perche in lui si mostrino l’opere di Dio. Ma con quale giustitia, o con qual ragione potrebbe qui dire alcuno? Mi sarà forse lecito spogliar altrui per vestir me stesso? Rispondo, che questa ragione, e questo Ius è di due sorti, un stretto, e rigoroso da Teologi chiamato Condegno; l’altro moderato, e [p. 57 modifica]piacevole, come quando con buona fede si determina qualche cosa. Siano dunque pure tutti gli huomini, come tanti Geremia, tanti Daniele, e tanti S. Gio. Battista di santissimi costumi, che ad ogni modo Iddio stricto iure li può punire, e castigare, senza far loro un minimo torto al mondo; poichè precedette sempre quella prima colpa originale, e quella prima peste del peccato, che con essa và necessariamente congiunto. Ch’è la causa, e l’origine di tutte le miserie. Per unum hominem peccatum in hunc mundum intravit, et per peccatum mors. Per un huomo entrò il peccato nel mondo, e per il peccato la morte, la quale non venne sola ma si bene accompagnata da innumerabili calamità, miserie, e afflittioni. Può dunque Iddio dopo il peccato originale giustissimamente, e come si dice: omnibus iuris apicibus [p. 58 modifica]servatis punire, e castigare de condigno, con tutte le sorti di supplicij, purche non siano eterni, qualsivoglia huomo ancorchè sia innocentissimo, e santissimo. Quindi è, che moltissimi fanciulli sono puniti con la morte. Hor quanto più dobbiamo essere puniti noi, che al peccato originale aggiungiamo tanti altri nostri peccati attuali? Di più se Dio ci punisce sottrahendo quelle cose, che per altro soleva concederci: e se alcuno si lamentasse, che gli fussero levate queste cose, giustissimamente gli potrebbe rispondere Iddio: Io non ti devo niente, e quello, che fin hora ti ho dato tienlo per una merissima gratia poiche i miei doni sono gratuiti. Adesso te li levo accioche tu sappia, che da me l’havevi, e ch’io non ti sono obligato di niente. Sin’hora sono stato teco liberale, se non ci vorrò più essere, in virtù di qual legge mi [p. 59 modifica]potrai tù convenire? An non licet mihi quod volo facere? Amice, non facio tibi iniuriam, tolle quod tuum est, et vade. 2 Non mi è forse lecito di far ciò che voglio? Amico, io non ti fo ingiuria: pigliati quello, ch’è tuo, e vattene via. Spiegando S. Agostino questa equità di Dio dice così: Subtrahit nobis aliquando, quae necessariis sunt, et atterit nos, ut sciemus, quia Pater Dominus est non solum blandiens, sed et flagellans. 3 Ci leva tal volta quelle cose, che ci sono necessarie, e ci castiga: accioche noi sappiamo, ch’egli e ci è Padre, e Signore, non solamente quando ci accarezza, mà ancora quando ci castiga. E chi sarà quello, che possa dirgli, che quì ci faccia una minima ingiuria? Stà in arbitrio del Principe dare a questo un cavallo, à quello una collana, à quello un Governo, à questo altro niente: Mà dato, che ci si devano le [p. 60 modifica]cose necessarie; non ci si farebbe però torto alcuno, se Iddio ci le levasse solamente per honore della S. Divina Maestà. Di che ci lamentiamo? siamo sudditi, e non siamo esenti dal prestargli il debito omaggio. Quelli solamente potresti dire esserne esenti, Qui in labore hominum non sunt, nec cum hominibus flagellabuntur: 4 i quali non essendo à parte con gl’altri huomini nella fatica; non saranno neanche flagellati insieme con loro.

Sappiamo ancora, che la vita suole essere più cara della sanità, della robba, e dell’onore. Cuncta quae habet homo, dabit pro anima sua. 5 L’huomo darà tutto quello, che hà per la vita sua. Ma li Martiri per mostrare l’amore, che portavano à Christo, con grandissima allegrezza spendevano la vita; e noi per la medesima causa negaremo cose minori? In oltre, che sorta d’ingiuria è questa se ad alcuno si [p. 61 modifica]toglie un mantello tutto logro, e spelato per dargliene un’altro meglio, e nuovo? Hor chi faria quì resistenza, se non fusse qualche pazzo? Ne sarebbe manco balordo uno, che stimasse tanto un cappello di tre quattrini, che ne rifiutasse cinquanta scudi. Iddio ci leva la sanità, la robba, la riputatione per darci maggiore gratia, e maggior gloria. Hor che ingiuria è questa? E perciò S. Giacomo ci esorta: Omne gaudium existimate, fratres mei, si in tentationes varias incideritis. 6 Stimate per gran ventura, e statene molto allegri, fratelli miei, ogni volta, che vi occorrerà esser tentati da diverse tentationi. Perche è una buonissima mercantia il cambiare le cose caduche, e fragili per l’eterne.

S. Ignazio Vescovo di Antiochia ardeva di si gran desiderio di patire, che animosamente disse: Ignis, crux, bestiae, ossium [p. 62 modifica]confractio, membrorum divisio, et totius corporis contritio, et tota tormenta diaboli in me veniant, tantum Christo fruar. Venghino pure contra di me il fuoco, la croce, le bestie; mi rompino tutte le ossa, mi squartino à membro à membro, e mi sminuzzino tutto quanto il corpo, e venghino contro di me tutti i tormenti del Diavolo; purche io mi goda Christo, perche il patire questi danni è cosa di gran guadagno.

Note

  1. [p. 84 modifica]Praescindendo à praesenti Dei decreto, et absolutè loquendo, non de poena culpae, sed de poenalitatibus, ut distinguunt Theologi V d. V asq. tom. 2 in 3 par. S. Th. q. 69. disp. 156.
  2. [p. 84 modifica]Matt. cap. 20. 15.
  3. [p. 84 modifica]Aug. to. 8. in ps 62
  4. [p. 84 modifica]ps. 72.
  5. [p. 84 modifica]Iob. cap. 2. 4.
  6. [p. 84 modifica]Iac. cap. 1. 2.

[p. 62 modifica]

§. 5


R
Acconta Giovanni Climaco una cosa meravigliosa, [p. 63 modifica]ch’ei vide con gl’occhi proprij, e con le proprie orecchie sentì in un monasterio. Era Economo di quel monasterio un’huomo modestissimo, e mansuetissimo, come qualsivoglia altro; il quale, avendogli prima l’Abbate fatto un’asprissima riprensione, comandò che come indegno di star in compagnia degl’altri fusse cacciato di Chiesa. Climaco, andatosene à parlare secretamente con l’Abate, cominciò à difender gagliardamente l’innocenza di quel povero huomo, ch’era stato così aspramente ripreso. A cui l’Abate prudentemente rispose in questo modo: io so molto bene, Padre mio, che il nostro Economo è huomo Religioso, e Santo; che fin hora non ha commesso cosa alcuna, che sia stata degna di sì mordace riprensione. Mà tù sai, che non si trova persona così barbara, e crudele, che ardisca di levar di boc[p. 64 modifica]ca, ò di mano il pane à un povero bambino: cosi voglio che tu pensi, che un Superiore del monasterio non è buono ne per se, ne per altri, se non gl’è molto à cuore il promuovere ad ogn’hora i suoi sudditi, à meritar la sù nel Cielo sempre maggiori premij, in qualunque modo, che à ciò fare occorra, ò sia con riprensioni, ò con ingiurie, ò con dispregi, ò con accuse. La Virtù da cose contrarie agitata sempre cresce, e sì avanza; con le ferite si rinverde; frà l’ingiurie si solleva: e fiorisce tra le miserie, e frà gl’affanni, dove senza haver chi la contrasti, si marcisce1. Il Prelato dunque de’ Religiosi, che in queste cose è negligente: priva questi del premio: e quei dell’esempio della Patienza, e à questi dà occasione d’insuperbirsi mancando loro il santo essercitio di così servare la modestia; come ancora in fertilissime terre vediamo acca[p. 65 modifica]dere, che se non si coltivano, e dalle pioggie non sono aiutate, subito producono infelicemente il gioglio. Che se l’Abbate d’un Monasterio fà bene, e saviamente quando, anche con ingiurie, e villanie, essercita gl’innocenti; per qual cagione Iddio, ch’è il Padre, e il Superiore, che governa questo grandissimo Monasterio del mondo, e fra ’l mare, e il Cielo; come fra tante mura lo tiene rinchiuso: Perche, dico, farà male questo gran Padre, e ingiustamente, se vorrà esercitare i suoi figliuoli con fame, con malatie, con povertà, e con ingiurie? Buonissimo discorso. E certo, che la Virtù senza havere chi la contrasti, si marcisce. Confermisi ancor questo medesimo con quel grave, e alto parere di Q. Metello nel Senato.2 Questi dopo, che fù superata, e vinta Cartagine, disse alla presenza di tutto quanto il Senato: Ch’ei non [p. 66 modifica]sapeva, se quella Vittoria havesse apportato più utile, che danno alla Republica. Perche si come gli pareva, che col restituir la pace la fusse stata d’utile, così non l’haversi levato dinanzi Annibale, le havesse fatto qualche danno. Poiche diceva, che col suo passagio in Italia s’era svegliata la Virtù del Popolo Romano, che dormiva; e ch’era da temersi, che trovandosi libera da sì gran nemico, non dovesse ritornare nel medesimo sonno. Tenne adunque ugualmente per male, l’incendio delle case, il guasto delle campagne, lo spendersi quanto c’era, e ’l rintuzzarsi i nervi dell’antica fortezza.

Ecco dunque un più che certo oraculo, che la Virtù senza Avversità si marcisce, e senza croce se ne sta dormendo la Patienza. Dio ti salvi dunque ò croce pretiosa, la quale ci cancelli le macchie delle colpe, ci metti avanti uno spec[p. 67 modifica]chio, accioche impariamo à conoscerci, e ci conduci come in un teatro per far mostra della nostra Patienza, e ci porgi non corone navali, ne obsidionali, ne civiche, ne murali, ne castrensi, mà si bene corone celesti, ci ammaestri con ogni sorte di virtù, e ci conduci a Dio. Adunque ò Signore, quì mi pungete, qui mi abbrugiate, quì mi tagliate, e lacerate, purchè in eterno mi perdoniate. E così quando per l’avvenire quando ci sarà offerto qualche altro più amaro calice, e ne sarà dimandato, Potestis bibere calicem? 3 Potete voi bere questo calice? animosamente rispondiamo, possumus, possumus: sì sì che potiamo confidati, non nelle forze nostre, ma si bene in Dio. Poiche non è maggiore il servo del suo Signore.4 E se Ioab Capitan generale se ne sta sopra le pelle in campagna, sotto li padiglioni, e sarà troppo gran vergo[p. 68 modifica]gna, se Uria se ne stia commodamente in casa sua, e in un letto spiumacciato si riposi. Ma sarà cosa vergognosissima, che sotto un capo tutto insanguinato, e d’acutissime spine trafitto, si trovino membra delicate, e molli, che tutti di rose, e bei monili adorni non spirino altro che profumi, e peregrini odori.

A noi dunque s’appartiene il capir bene, che vi sono infinite ragioni per le quali Iddio esserciti i suoi scolari in questa sua Scuola; li travagli con pensieri; li prema con dolori e in tutto, e per tutto aspramente li tratti. Con questi travagli siamo ammaestrati per andare à godere quella beata immortalità; e per questa strada si và alla vita sempiterna. Non itaque (dice S. Agostino) in flagello deficiamus ut in resurrectione gaudeamus. 5 Perciò non veniamo meno sotto il flagello, per godere poi nella [p. 69 modifica]nostra resurrettione d’una tranquilla, e sempiterna vita.

Note

  1. [p. 91 modifica]Climac. gr. 4 ant. med.
  2. [p. 91 modifica]Valer. lib. 7 c. 2. post init:
  3. [p. 91 modifica]Matth. c. 20. 22.
  4. [p. 91 modifica]Io. c. 15.15.
  5. [p. 91 modifica]Aug. tom. 10. de Verb. Dom. serm. 13. c. 3.